Letteratura
“Il Ghetto interiore” di Amigorena, viaggio nelle infinite identità ebraiche
Molti della mia generazione – io senz’altro –, comunque figli della Shoah, di famiglia laica o religiosa, più o meno osservanti, non credenti o atei, abbiamo iniziato a modellare la nostra identità pervasi dal detto e dal non-detto che ci circondava. Lo sterminio, la fuga, la paura in qualche modo ci plasmavano attraverso i comportamenti, i tic, le sofferenze, il disagio, i racconti, i suicidi, i silenzi di chi ci stava intorno e ci amava. Spesso la musica, arte dove la parola è assente. Ha scritto la poetessa Louise Glück, Nobel 2020: «Guardiamo il mondo una volta da piccoli / il resto è memoria». Adesso – abbastanza recentemente in realtà –questa voce identitaria ha iniziato a esprimersi, fosse solo perché la lenta, inesorabile scomparsa dei testimoni chiama a rapporto noi. Si è cominciato a parlare in vari modi, più che altro libri: uno per tutti “La generazione del deserto” di Lia Tagliacozzo. Ma, senza permettermi assolutamente giudizi, l’identità ebraica che ha preso unicamente corpo in modalità-Shoah è a mio parere monca e destinata a un tempo limitato e non infinito come invece dovrebbe. Mancano – al di là dell’eventuale fede – la gioia di essere, qualche ritualità, feste e ricorrenze, la scansione del tempo consapevole, le rinunce-testimonianza (con se stessi, non ostentate a mo’ di spettacolo – per esempio una qualche osservanza della kasherut), lo studio.
La ridondante premessa per affrontare un’opera che mi ha profondamente toccato, turbato, e di cui non mi riesce semplice parlare. “Il Ghetto interiore” di Santiago H. Amigorena, tradotto da Margherita Botto, Neri Pozza editore. È la storia del nonno dell’autore, Vicente Rosenberg, ebreo polacco, trasferitosi a Buenos Aires mentre madre e fratello sono rimasti nel Ghetto di Varsavia. A lui è andata bene: ha un negozio di mobili avviato, è sposato, ha due bambini, è circondato da amici cari venuti via con lui. La storia vera del nonno di Santiago che da tempo vive in Francia. Inutile raccontarla, va letta. Va letta e ascoltata, anche e forse di più nei suoi silenzi e nei suoi mutismi. Vicente fugge sì dall’Europa che sta per bruciare, però scappa insieme dal «dovere di appartenenza all’ebraismo – inteso non tanto come fede bensì come destino –, probabilmente dall’ambizione di far carriera, diventare un bravo avvocato, un professionista apprezzato, un uomo che incide sulla forma della società in cui vive», come saggiamente riflette Wlodek Goldkorn. Ambisce insomma all’oblio, a una esistenza “normale”.
Ma… Ma il Ghetto non è solamente quel muro dietro al quale i tedeschi stiparono e sterminarono 400mila donne, bambini, vecchi, uomini. Qualche lettera della madre, Vicente rientra nell’essere profondo da cui non è mai uscito. Né mai uscirà. Potrà, forse, accettarlo. O forse no. Accettare di essere ebreo. «È come se questa origine fosse una grossa valigia che bisogna portarsi appresso per tutta la vita. Una grossa valigia piena di vecchi manoscritti vergati in una scrittura illeggibile… una scrittura illeggibile di una lingua che non si parla neanche più. È come se essere ebrei, perché non è una nazionalità, perché non si ha un territorio, diventasse una specie di retaggio talmente pesante…talmente enorme… Come se, a furia di nascere in terre straniere, ci fossimo dovuti convincere che il territorio non era importante ma che a definirci era qualcosa di più forte –qualcosa di più forte, ma molto più doloroso, qualcosa di granitico che rende la nostra identità ineluttabile, irrevocabile. E però, anche del tutto impossibile da condividere». Una delle infinite, e mai finite, identità dell’essere ebreo.
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