Letteratura
Il diritto degli immigrati di non essere “buoni”
Tutti vogliamo essere accettati e inclusi, ma ci chiediamo mai quali caratteristiche vogliamo che abbiano gli altri per permettere loro di far parte della nostra cerchia? Devono essere affini a noi, simili a come li immaginiamo, dare poco fastidio, non sconvolgere troppo il nostro mondo. Siamo disposti a sacrificare una parte della nostra zona di confort per concedere spazio all’altro, a cambiare, a scoprirci diversi?
E se l’altro è “lo straniero”, cosa di lui siamo disposti ad accogliere? Va bene se pulisce le strade gratis, se è sorridente quando per la centesima volta in un giorno si sente rispondere “no” mentre cerca di vendere dei fazzoletti, una rosa o un accendino. Lo compatiamo se racconta storie di guerra, fame e torture con lo sguardo triste e la voce tremante. Ma siamo pronti a vederlo davvero uguale a noi?
I libri importanti sono quelli che sconvolgono il nostro mondo, lo ribaltano, lo mettono in discussione. Non confermano le nostre certezze, ma le minano alla base, perché solo così possiamo evolvere. Ed è questo che fa “Consigli per essere un bravo immigrato” di Elvira Mujčić che esce oggi 2 maggio 2019 per Elliot Edizioni. Suscita nuovi interrogativi, supera il dibattito attuale sull’immigrazione, agita anche le coscienze che si sentono in pace. (prosegue dopo l’immagine)
Ismail è un bravo immigrato del Gambia: segue le regole del centro di accoglienza, ha imparato l’italiano, sprona gli altri ragazzi a darsi da fare, è efficiente, sorridente, proattivo. Eppure tutto questo non basta a ottenere quello di cui ha bisogno per ricominciare a vivere: i documenti. Che fare? Si sente perso e chiede aiuto a Elvira, una scrittrice bosniaca di cui ascolta un intervento a un convegno. Anche lei è stata profuga molti anni prima e oggi rappresenta agli occhi del ragazzo una donna “integrata”, una che ce l’ha fatta. E allora le fa una richiesta strampalata: «Voglio lezioni su come essere un immigrato di successo». Lei è incredula e allora lui aggiusta il tiro: «Ok, non proprio di successo, magari solo dei consigli su come essere un bravo immigrato.» Elvira non sa che rispondere, non esistono ricette, un decalogo di regole non c’è. Però non si sottrae all’sos di Ismail e lo ascolta, giorno dopo giorno, su una panchina nel parchetto di San Lorenzo. Si crea così tra i due un flusso di pensieri, idee, ricordi ed emozioni, il tempo si assottiglia e avvicina le vicende dell’Africa a quelle dell’ex Jugoslavia negli anni ’90. In questo presente si mescolano due vissuti affini e allo stesso tempo diversi che si incontrano nel decifrare la realtà di oggi, con i suoi schemi e pregiudizi.
Dice Ismail a un certo punto: «Odio questa cosa che noi immigrati dobbiamo sempre fingere di essere buoni, bravi e sorridere e dire grazie fratello, grazie sorella. Mi sembra che questa cosa ci fa diventare stupidi». E torniamo quindi alla domanda iniziale: possiamo accettare gli immigrati solo se buoni, bravi e riconoscenti? Quali loro esigenze giudichiamo legittime? «Per qualche strana ragione – si legge nel libro – una persona che proviene da una guerra o da un paese povero perde le sembianze umane e, assieme alle sembianze, anche i bisogni, i desideri, i progetti. In poche parole smette di essere umano, e qualsiasi richiesta che riterremmo normale per un essere umano, mossa da un immigrato è uno sputo nel piatto in cui mangia e dal quale deve mangiare qualsiasi cosa ci sia, perché è sempre meglio di quello che aveva e se non gli va bene, se ne torni da dove è venuto.» Ma poiché da dove è venuto non ci può tornare, spesso l’alternativa che resta è mentire. Mentire per avere i documenti, «l’atto di proprietà della nuova identità che ti stai costruendo», mentire per essere accettati, mentire per preservare la propria storia.
Mujčić racconta una burocrazia ricurva su se stessa che non guarda in faccia nessuno, che rimesta nelle storie personali con aggressività, rudezza e non curanza, che costringe chi ha davanti a impersonare un ruolo in un copione già scritto, un copione che funziona. Per essere accettata dalla commissione la storia che il migrante racconta deve essere credibile, coerente, piena di dettagli, deve rispettare dei canoni, «come se fosse un genere che ha delle regole e se non si rispettano le regole…puuff», spiega Ismail. Bisogna mostrare plasticamente la sofferenza, quella psichica è troppo arbitraria: «Il certificato medico è tutto», (…) «se è un certificato di ferite fisiche allora vai alla Commissione canticchiando. Spesso le ferite però si rimarginano, sai il tempo passa, e se non c’è più traccia di ferite sul corpo, è come se non fosse successo niente.» Cosa si nasconde dietro tanta freddezza? Perché siamo diventati così poco empatici?
L’autrice avanza una possibile spiegazione: «Mi venne il sospetto di vivere in mezzo a chi non rischia più, si nasconde dietro la sua opulenza piena di pregiudizio e priva di desiderio e quello di cui ha paura è la tenacia con la quale altri esseri umani bramano una vita più piena. Dunque la nostra società non è affetta da razzismo, bensì da invidia; dev’essere il senso dell’invidia per le loro imprese epiche ed eroiche che ci spinge a devitalizzarli bloccandoli all’interno di luoghi e tempi vuoti, in cui la loro energia si affievolisce e il desiderio di vita si fa domabile. È forse il livore delle vite occidentali il motivo per cui li obblighiamo a narrarci unicamente storie penose, le altre abbiamo paura di ascoltarle, poiché chi siamo noi se loro non sono dei prevedibili poveracci?». Anche Elvira e Ismail hanno un po’ paura di ascoltare e raccontare le loro reciproche storie, ma esse emergono comunque, all’inizio tra le pieghe dei discorsi e nei silenzi, poi irrompono durante una giornata di pioggia e come un fiume in piena abbattono muri e reti di protezione vecchie di anni. Nel finale i due protagonisti, proprio come chi ha attraversato una tempesta, si ritrovano più leggeri. Si incontrano ancora, sempre a San Lorenzo. Ora camminano, perché è inverno e fa freddo, la rabbia ha lasciato il posto all’ironia: «succedeva sempre più spesso che tenessimo a mente aneddoti divertenti da raccontarci». Quel che resta delle lunghe chiacchierate è la gioia di continuare a vedersi. Una sensazione che è Ismail a tradurre in parole: «Ho pensato che forse siamo diventati amici».
“Consigli per essere un bravo immigrato” di Elvira Mujčić, Elliot Edizioni 2019
Foto da Radio Colonna
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