Letteratura
Il cappotto, l’indumento dell’autobiografismo mistico
“Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol” ebbe a dire Fëdor Dostoevskij. Con questa frase, divenuta celebre, il Maestro poneva al centro del panorama letterario russo la figura di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, scrittore e drammaturgo dalle sfumature stimolanti e coinvolgenti, irrimediabilmente disturbato dal materialismo e dalla corruzione dilaganti nella società del suo tempo e perennemente impegnato nella sua ricerca etica, vissuta in una Pietroburgo piuttosto smodata.
“Il cappotto” è, tra le sue storie brevi, la più discussa dai critici, riadattata anche come narrazione cinematografica. Rappresenta l’allegoria straordinaria del povero impiegato di stato Akakij Akakievič (un nome dal forte timbro cacofonico che suscita ilarità), vittima della spinosa crisi economica e della derisione maligna dei suoi colleghi. Un capo di abbigliamento comprato a fronte di tante privazioni ma che poteva rendere al pover uomo la dignità che, nella Russia divisa in ranghi di Nicola I, si otteneva più per lo status sociale che si ricopriva che per le proprie qualità. Ma, al di là della trama meravigliosa, oppure, chissà, addentrandomi nel retroscena di quella stupefacente narrazione, il cappotto ha rappresentato per me l’indumento che ha finito per simboleggiare, se non proprio modellare, le fasi della mia vita, a partire da quella infantile per arrivare a quella matura. Un cappotto maxi, negli anni sessanta fece di me un bambino vivace, mentre uno in cachemire, color cammello, mi proiettò in un mulinello esistenzialista in età giovanile. In stile british, il mio attuale, per conformare esteticamente un decoro interiore basato sull’essenzialità, la fantasticheria della maturità e il gusto sobrio.
Ma, è del vecchio cappotto, liso e rattoppato, di Akakij Akakievič che si veste il nostro animo quando ci lasciamo prendere dal risentimento per un mondo che non ci accoglie come vorremmo, dalla tristezza di fondo che pervade le nostre speranze disattese, da una voglia di riscatto che non modifica di una virgola il nostro valore e le nostre capacità. E, così come Akakij sognava un cappotto nuovo per emanciparsi da una condizione di inferiorità, anche noi ne desidereremmo uno per tentare di rallegrare la nostra interiorità. A ognuno il suo cappotto, mi verrebbe da dire, purché sia in sintonia con l’umore di chi lo indossa. Ne ho visti alcuni, semplicissimi, che esprimevano tutta l’eleganza spirituale delle persone che avvolgevano. Altri, semplicemente appoggiati su stati di grazia inebrianti. Ecco, noi e i nostri cappotti abbiamo da camminare, modellandone la forma per adeguarli ancor di più alle nostre movenze, goffe, o eleganti che siano. Fintantoché sono il calco della nostra anima, essi sono più intimi di qualsiasi mutanda, o coulotte.
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