Letteratura
Il buio ha paura dei bambini. Il romanzo noir di Emilio Marrese
«A Bologna davanti alle femmine bisogna addirittura metterci l’articolo (la mamma, la nonna, la Giovanna, la Maria), mentre a Napoli si risparmia pure sulle sillabe (Giovà, Marì) però così le persone sembrano più vicine e non che le devi nominare tenendole per le pinze».
Eccole, Napoli e Bologna, la mamma e la femmina: dualismo al ragù, luogocomunismo oltranzista, verace panoramica italiana. E magari chi nasce strunz non diventa babbà, però al limite con la giusta dose di squacquerone e mortadella può trasformarsi in una superlativa piadina. Insomma: questo romanzo di cui l’asse nord-sud costituisce così fortemente l’ossatura narrativa, sembrerebbe adattissimo per chi si pasce di quella cine/letteratura comparativa che segue con tutta l’umana simpatia i meridionali costretti a migrare in terra padana: da Rocco e i suoi fratelli a Totò e il suo immortale disorientamento milanese; «per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare?».
Adattissimo per carità: però, Il buio non ha paura dei bambini di Marrese finisce per andare, fortunatamente, da tutt’altra parte.
Angelo, il piccolo protagonista napoletano di questa storia, cambia pelle molto presto: orfano di entrambi i genitori, uccisi da una fuga di gas, avrebbe vissuto volentieri per sempre a Piombino coi parenti ma non è possibile. Eleonora e Michele, bolognesi altoborghesi nei mezzi e comunisti nell’animo, lo hanno adottato e incastrato in una Bologna tollerante fino a prova contraria e immersa nei suoi anni ’70: studenti universitari, Autonomia Operaia, blindati a sirene spiegate, lacrimogeni, poliziotti in assetto da guerra (“e i cappotti lunghi però. Come si fa a fare la guerra col cappotto?“). Ci prova, Angelo. A integrarsi in una società che chiama i meridionali “marocchini”, a chiudere coi ricordi, col nero che si porta dentro perché “uno questo nero non se lo può portare sempre appresso. Quando diventa assai lo deve cacciare sennò nemmeno si muove più“. Ci intrattiene, Angelo, con la sua ironia sul confronto Napoli-Bologna, e col suo sguardo diretto e sarcastico. Tra il riso e il pianto, l’adattamento e la rassegnazione, ci racconta un pezzetto di una storia anche nostra.
«La gara di canzoni, come me l’ha insegnata Andrea funziona così: scelgo due canzoni che vanno di moda al momento o due cantanti poi inizio ad andare su e giù sulla banda fm con il manopolino del tuning per un tempo che decido io, un quarto d’ora il primo tempo e altrettanto la ripresa, tipo partita di Subbuteo, e ogni volta che becco quel cantante è un gol per lui. Se voglio fare un match equilibrato al vertice, una sfida scudetto con molti gol, metto contro Battisti e Celentano. […] Di notte però le radio trasmettono musica triste e lenta quindi, anche se a momenti scardino la manopola della radiolina nera a transistor che mi ha regalato Michele, la partita è noiosissima, non segna nessuno, e incredibilmente solo nei minuti di recupero Orzowei stende Rocky siglando la rete decisiva. Corri ragazzo vai e non fermarti mai. Giro ancora un po’, tanto per fare, e sento uno che canta «ora non abito più là, tutto è cambiato non abito più là, ho una casa bellissima…» e mi vengono fuori parole che non sapevo di conoscere, come il Padre nostro, bellissima come vuoi tu, ma io ripenso alla gatta. Mai avuta una gatta né una soffitta né una stellina che mi veniva a trovare vicina, al massimo dalla finestra potevo emozionarmi al passaggio del filobus. Ma comincio a piangermi contro senza riuscire a fermarmi.»
Emilio Marrese, giornalista firma di Repubblica nato guarda un po’ a Napoli e cresciuto a Bologna, modella il suo racconto con un gran talento narrativo e un ritmo invidiabile e con una domanda che sembra rivolgere al lettore a ogni pagina: quanto nero può portarsi dentro un bambino? Quanto peso si nasconde nel suo sguardo leggero di fanciullo? Quali meccanismi oscuri mettiamo in piedi per non lasciare che questo nero ci paralizzi? La risposta nel finale, nero e lucente.
Emilio Marrese Nato a Napoli nel 1967, ha vissuto a Bologna e poi a Roma. Giornalista di «Repubblica» dal 1987 e voce di Radio Capital. Premio Coni 2011 per la narrativa sportiva con Rosa di fuoco. Romanzo di sangue, pallone e piroscafi (Pendragon), tradotto anche in Spagna e Sud America. È autore di due documentari: Via Volonté n.9 (Fandango, 2010) e Il Cielo Capovolto (Cineteca Bologna, 2014). Ha quattro figli.
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