Letteratura
I versi gentili e incisivi di Charles Simic
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Nato a Belgrado nel 1938, emigrato negli Stati Uniti a sedici anni con la famiglia, Charles Simic (Premio Pulitzer nel 1990) è oggi uno dei più acclamati poeti americani. Professore emerito all’Università del New Hampshire, nella sua scrittura spazia tra diversi argomenti, dall’arte alla filosofia al jazz. La sua poesia, sin dall’inizio classificata come minimalista, ritrae aspetti e personaggi della vita quotidiana con accenti di umana e affettuosa solidarietà, venata da un’arguzia che mai diventa sarcasmo, dura polemica o ribellione politica.
Avvicinati e ascolta è il titolo dell’ultima raccolta di versi di Simic, tradotta dai suoi interpreti più fedeli e assidui, Damiano Abeni e Moira Egan. Già il titolo stesso (citazione biblica tratta da Dt 5, 27) sembra voler programmaticamente esemplificare l’intenzionalità comunicativa dell’autore, basata sulla relazionalità e la concordanza non solo con le persone, ma con tutti gli elementi del creato: “La risata silenziosa / delle stelle / nel cielo di notte / ci dice tutto / ciò che ci serve sapere”.
Questo sentirsi parte di una vicenda storica e universale, nella vulnerabilità che accomuna gli esseri viventi, deriva forse anche dall’aver patito il trauma dello sradicamento dal paese e dalla lingua d’origine, vittima di un destino feroce e incomprensibile, come lui stesso confessa: “L’essere uno dei milioni di profughi ebbe un grande effetto su di me. Oltre alla mia sfortunata vicenda, ho avuto modo di sentirne molte altre. Sono ancora stupito di tutta la viltà e stupidità a cui ho assistito durante la mia vita”. Così sintetizza liricamente nella poesia che dà il nome alla raccolta: “Sono nato – non so a che ora – / mi hanno dato una pacca sul sedere / e mi hanno passato in lacrime / a uno morto da parecchi anni, in una nazione / che non è più sulle carte geografiche”.
I suoi versi danno voce, in maniera incisiva pur nella loro docile indulgenza, alla fragilità dell’esistenza umana, esposta ai capricci del caso, ai soprusi dei potenti, alla crudeltà della morte. Siamo tutti “uno spaventapasseri nella tempesta”, ci muoviamo in equilibrio su un filo teso tra due grattacieli, con un ombrello aperto in mano, acrobati dell’incertezza: “Molto lutto ci attende, amici miei”, e in questa precarietà esistenziale viviamo in una fratellanza impaurita e confusa con chi ci sta intorno. (“Guardali alle prese con il fato / mentre rotolano e ballonzolano / gettando al vento ogni cautela / per sconfiggere la sorte”). Incomprensibili ci appaiono causa e finalità del vivere, quando sappiamo che morendo troveremo ad attenderci solo il buio, il niente. “Sarai come un bimbo nuovo a scuola / che ha paura di guardare la Maestra / mentre si sforza di capire / cosa stanno dicendo / di tutto questo niente”. E il niente è “ancora più terrificante che sentire qualcosa”: “Charles Simic ha paura della morte? / Sì, Charles Simic ha paura della morte. / Prega il Signore alto nei cieli? / No, pasticcia con la moglie”.
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Il poeta si chiede se ciò che ci terrorizza provenga dall’esterno (“C’è qualcosa di malefico là fuori”) oppure sia un insopprimibile tremito interiore (“per capire / se il mondo che vediamo è davvero là fuori / o invece non esce mai dalle nostre menti”). L’epigrafe iniziale di Ralph Waldo Emerson, “Come se servissero gli occhi per vedere”, suggerisce infatti che per scrutare l’oltre, penetrare l’invisibile e l’oscuro, là dove il reale sconfina nel sogno e nell’incubo, può bastare l’immaginazione.
Al timore che non esista una giustificazione del male, che non ci si possa opporre all’ingiustizia terrena e divina, offre però rimedio la serenità degli affetti familiari, la “dolcezza arcana” dell’amore, l’abitudine di gesti quotidiani, o la minima e tranquilla avventura di una merenda in campagna: “Prima che arrivino le piogge autunnali / facciamo un altro picnic, / ora che le foglie cambiano colore / e l’erba è ancora verde in certi posti. // Pane, formaggio e un po’ di uva nera / dovrebbero bastare, / e una bottiglia di vino per brindare ai corvi / sconcertati dal trovarci lì seduti”.
CHARLES SIMIC, AVVICINATI E ASCOLTA – TLON EDIZIONI 2021, ROMA, p.181
Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan
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