Letteratura
I nodi irrisolti del Nordest: intervista a WuMing 1
In Cent’anni a Nordest, reportage pubblicato recentemente da Rizzoli, il componente del collettivo letterario bolognese racconta, utilizzando come spunto iniziale l’anniversario dello scoppio della Grande Guerra, cent’anni di ferite, conflitti, cicatrici, nazionalismi, estremismi e vecchi e nuovi miti (autoctoni oppure importati, come l’onnipresente Vladimir Putin) in quella che continua ad essere l’area più calda della geografia sociopolitica italiana. Abbiamo discusso con l’autore delle radici e degli ultimi sviluppi di una irrequietudine che sembra inserirsi in un quadro globale ben più ampio.
Cent’anni a Nordest è a prima vista un percorso di “revisione” dei falsi miti patriottici della Grande Guerra. In realtà va molto oltre, offre una chiave di lettura del presente e delle sue contraddizioni, che vanno al di là del carattere estremo che riconosci come caratteristica saliente del nostro Nordest. Che cosa ti ha spinto a proporre questo reportage ibrido inizialmente a “Internazionale” e poi ad ampliarlo in un volume?
Da molti anni mi si può incrociare mentre girovago per il Nordest, tra presentazioni di libri, conferenze e – più di recente – escursioni. Da più di dieci anni trascorro regolarmente le estati in Venezia Giulia, un parziale «ri-radicamento» che è stato fondamentale per scrivere Point Lenana (2013). Quando ho cominciato a frequentare il cantone nordorientale d’Italia, ho iniziato a captare messaggi stranianti, a percepire cupe vibrazioni di fondo, a inciampare nei fili di suture che si erano slegate, riaprendo vecchie ferite. Tutto questo è aumentato d’intensità con l’approssimarsi del centenario. Mi sono reso conto che per capire l’Italia tutta e le sue rimozioni – rimozione dei crimini dell’imperialismo italiano, in primis – si deve ripartire dal Nordest, che è un osservatorio privilegiato su quel che siamo. Non si comprendono davvero l’Italia, la sua storia novecentesca e il suo presente se non si comprende meglio il Nordest, al di là degli stereotipi giornalistici, che poi riguardano principalmente il Veneto. Ecco, c’è un uso venetocentrico del termine «Nordest» che impoverisce il concetto socio-geografico-storico e non aiuta a capire. Oggi chiamiamo «Nordest» quello che un tempo si chiamava «Triveneto» e prima ancora «le Tre Venezie». Solo che nelle «Tre Venezie» c’erano anche l’Istria e, stiracchiando molto, la Dalmazia. Ecco, appunto: la stragrande maggioranza degli italiani non sa nulla del perché oggi abbiamo dentro i nostri confini Trieste, Gorizia, Trento e Bolzano, e perché invece non abbiamo più Pola e Fiume, e quali conseguenze questo comporti nel nostro presente. Ad esempio, se chiedi in giro per quali motivi precisi il Friuli-Venezia Giulia sia “a statuto speciale” (sebbene in modo molto più lasco rispetto a Trentino e Alto-Adige), la maggior parte degli interlocutori non saprà spiegarlo. Lo riscontro da anni, da quando ho cominciato a raccontare storie del Nordest. Ho incontrato migliaia di lettori di Point Lenana e moltissimi/e mi dicevano di aver letto per la prima volta nel nostro libro le vicende che io e Roberto Santachiara abbiamo raccontato, relative a Trieste e alla storia del confine orientale. Sulla storia e la realtà di queste terre bisogna lavorare in un certo modo, bisogna unire ciò che appare separato e separare ciò che appare unito. Quando Giovanni De Mauro mi ha chiesto se avevo idee per un reportage da pubblicare sul sito di Internazionale, ho subito pensato a questo: come il Nordest è arrivato all’appuntamento del Centenario della prima guerra mondiale.
C’è un fantasma inquietante che si aggira per le pagine del tuo libro, e non mi riferisco alla Grande Guerra, bensì a Vladimir Putin. Il tentativo, da parte dei vari secessionismi, “nostalgismi” e nazionalismi locali, di rivendicare come proprie le origini del leader russo è da un lato grottesco, dall’altro piuttosto inquietante. Mi pare che questo discorso si possa inserire all’interno del dialogo tra globalizzazione e rinazionalizzazione di cui parli ad un certo punto. Colpisce, su tutto, il modo in cui lo stesso Putin è riuscito a sfruttare la folcloristica notizia per il proprio tornaconto mediatico interno.
Se ti occupi di contraddizioni del Nordest, Putin lo trovi ovunque, è un semidio, è il restauratore dei «valori tradizionali», è il nemico dei finocchi, dell’UE e dei valori liberali dell’impero americano. C’è probabilmente un fiume, o almeno un torrente, di rubli che parte da Mosca e arriva nei salvadanai di svariate realtà reazionarie, venetiste, austronostalgiche, lefebvriane, tirol-feticistiche, criptonazi, fascioleghiste e dintorni. Uso «rubli» in modo metaforico, è plausibile che Putin paghi in euro, o in dollari. Diverse inchieste – le cito nei «Titoli di coda» del libro – dimostrano che il Cremlino, per suoi tornaconti geopolitici, finanzia quasi tutte le tipologie di estrema destra esistenti in Europa, e perché il nostro Nordest dovrebbe fare eccezione? Tanto più che gli indipendentismi reazionari del Nordest sono massicciamente filo-russi ed «eurasiatisti». Come tutte le destre occidentali, sono affascinati dalle teorie di Aleksandr Dugin, il nuovo Evola, guru della cosiddetta «quarta teoria politica», aedo della politica di potenza di Putin. Hai ragione, questo ha molto a che fare con la dialettica tra il problema principale degli ultimi trenta-quarant’anni (la globalizzazione neoliberista con i suoi FMI, BCE, TTP e quant’altro) e la falsa soluzione sempre più spesso propinata alle masse (il ritorno dei nazionalismi, delle mitologie «suolo e sangue», con i loro complottismi e i capri espiatori additati nelle figure di migranti e zingari). Lo abbiamo già visto: non solo la falsa soluzione retroagisce sul problema aggravandolo, ma può addirittura sostituirlo, divenendo il problema principale. Chi pensa che l’Europa occidentale sia per sempre vaccinata dal rischio di fascismi e guerre in casa, farebbe bene a svegliarsi dal sogno oppiaceo. Va detto che anche una certa sinistra neostalinista non scherza, quando si tratta di esaltare la Russia. Per loro, in fondo, la Russia è sempre la Russia. Al cuore non si comanda. A proposito, era russo anche Pavlov, e di pavlovismo in pavlovismo, in nome di quello che io chiamo «antimperialismo degli imbecilli», una certa sinistra scantona sempre più in alleanze piuttosto luride, di stampo «rossobruno» (cioè vere e proprie partouzes tra estrema sinistra ed estrema destra). Putin, non dimentichiamolo mai, è il leader autoritario di un paese imperialista, il garante governativo di un capitalismo selvaggio e trash, nonché il sanguinario repressore di ogni spinta indipendentista all’interno della sua Lebensraum (si veda quel che è accaduto in Cecenia), eppure viene descritto come nemico dell’imperialismo e – come si legge sui siti di certi gruppi veneti o triestini – amico degli indipendentismi.
Un altro punto su cui ti soffermi è la rimozione dalla memoria di chi, all’interno di territori rivendicati dall’Italia, ha scelto di combattere per il “nemico”, che tale ovviamente era solo dal punto di vista di chi poi quei territori li ha conquistati…
Nonostante quel che dicono i politici che confondono il 24 maggio 1915 (entrata in guerra dell’Italia) con la difesa del Piave e «Non passa lo straniero», l’Italia entrò in guerra da aggressore e invasore (è incontrovertibile: furono occupati, rioccupati e poi annessi anche territori dove non viveva un solo italofono, e da lì cominciò la persecuzione razzista degli “alloglotti”), ma anche da traditore. Il Regno d’Italia era da trent’anni nella Triplice Alleanza, cioè era amico degli imperi centrali (Austria e Germania). Dato che era stata l’Austria a muovere guerra alla Serbia e la Triplice era un’alleanza puramente difensiva, l’Italia non era vincolata a entrare in guerra a fianco dei Kaiser. Da qui a entrare in guerra contro di essi, però, ce ne passa. Tuttavia, è quel che avvenne: da un giorno all’altro, per i profitti della grande industria italiana (Ansaldo, Fiat, Ilva) e in cambio della promessa di territori nell’Adriatico orientale e in Anatolia, l’Italia entrò in guerra contro i suoi vecchi alleati. Questo sollevò un’onda di riprovazione e sdegno anche tra gli italofoni dell’impero austroungarico. A Trieste vi furono tumulti nei quali la cittadinanza anche italofona prese di mira e distrusse i simboli dell’Italia “regnicola” e dell’irredentismo cittadino. Questo in nome della patria tradita e aggredita, cioè l’Impero austro-ungarico. E stiamo parlando di italiani, che erano italiani non meno di quelli di Roma o Torino, solo che non erano interessati a far coincidere l’Italia – intesa come koinè linguistica culturale – con lo stato dei Savoia. Non ritenevano che lingua, nazione, popolo e “patria” dovessero per forza coincidere. Quegli italiani vivevano nei territori dell’Austria-Ungheria, si consideravano sudditi fedeli dell’Imperatore, non si sentivano “irredenti” né ritenevano che i Savoia dovessero “redimerli”. Non avevano alcun interesse a diventare “regnicoli”. Nondimeno, erano italiani. Ed erano patrioti. Solo che la loro patria non era il Regno d’Italia. Dell’Austria e di Cecco Beppe a me non frega niente, faccio solo notare che il Regno d’Italia entrò in quel conflitto in modo canagliesco e meschino, oltreché da potenza imperialista e razzista. Quando queste cose le fanno gli altri, magari contro di noi, ci stracciamo le vesti. Quando le facciamo noi, vanno bene. Se c’è una cosa tipicamente italiana, beh, è proprio quest’atteggiamento. Si pensi alla strage del Cermis e poi al caso dei «due marò», per avere un cristallino esempio di tale doppiopesismo.
Scorrendo le pagine si rimane colpiti da quanto poco la Grande Guerra sia stata metabolizzata. Meglio, di come sia stata metabolizzata male, con cicatrici mai davvero richiuse. Se però tu ti concentri, per forza di cose, su fratture e nodi irrisolti, mi pare che si stia formando anche qualche anticorpo. Magari ancora minoritario, ma significativo.
Noi scontiamo un secolo di rimozioni e negazionismi, e non solo sulla vera natura della Grande guerra. Decenni di rimozione e negazionismo sui nostri crimini coloniali. Linciaggio mediatico e boicottaggio istituzionale nei confronti dei primi storici che scoperchiarono la fossa, a cominciare da Del Boca. Un manto di silenzio sui nostri crimini di guerra in Jugoslavia, Albania e Grecia. Censura sui documentari (Fascist Legacy) e libri (L’olocausto rimosso) di autori stranieri che ne parlavano. Mai un solo criminale di guerra di quelli presenti sulla lista ONU fu consegnato alla giustizia dei paesi che ne chiedevano l’estradizione. Non c’è mai stata l’epurazione: vent’anni dopo la fine della guerra, la totalità dei prefetti, viceprefetti, questori e vicequestori proveniva dai ranghi del regime fascista. Nessuno di loro aveva partecipato alla guerra di Liberazione. Per non parlare della magistratura, dei servizi segreti etc. E poi, decenni di cultura di massa che ha esercitato un’azione edulcorante del fascismo, presuntamente “più innocuo” del nazismo, con meccanismi retorici perfettamente ricostruiti e analizzati da storici come Mimmo Franzinelli e Filippo Focardi. Uno dei massimi spacciatori di verità di comodo sul fascismo fu Indro Montanelli. Quanto alla Grande guerra, il 24 maggio scorso si è visto bene come le istituzioni nazionali intendono ricordarla: in modo acritico, con entusiasmo, festeggiando un massacro. La ministra della difesa Pinotti che, a Trieste, corre gli ultimi cento metri di una staffetta organizzata dall’esercito, poi si profonde in retorica patriottarda identica a quella del 1915, è un brutto vedere e uno sconcio ascoltare. Detto questo, sì, stanno emergendo nuove narrazioni, che faticheranno ad affermarsi ma stanno combattendo. In Cent’anni a Nordest parlo delle lotte in corso su toponomastica (i nomi di luoghi) e odonomastica (i nomi di piazze e vie). Quei cittadini di Ronchi dei Legionari che vogliono liberare il nome della loro cittadina dal riferimento all’impresa di Fiume, o i comitati che chiedono di revocare l’intitolazione di vie e piazze a un macellaio come Luigi Cadorna, stanno portando avanti lotte importanti, ed è solo l’inizio, ne sono convinto.
Cent’anni a Nordest è un esempio di quelle forme di ibrido narrativo che, come Wu Ming, teorizzate da qualche anno. È in tutto e per tutto un oggetto narrativo non identificato, con tanto di titoli di coda che occupano un quarto del libro e consentono al lettore di approfondire le fonti, oltre che ad assistere in qualche modo al lavoro di costruzione che c’è dietro al libro. Mi pare quasi di leggere in tutto ciò una forma di sfiducia nei confronti della narrativa, intesa come fiction, come romanzo. Avete pure dichiarato che L’Armata dei Sonnambuli sarebbe stato il vostro ultimo “romanzo storico”. Quel tipo di opera ha esaurito il suo compito, è il caso di incominciare a consolidare ipotesi alternative di narrazione?
Senz’altro, quel tipo di opera – il romanzone storico da Q a L’Armata dei Sonnambuli – ha esaurito il suo compito dentro di noi, per la nostra crescita come autori, per quello che intendiamo realizzare. Usciranno ancora romanzi storici importanti e innovativi, ma noi abbiamo voglia di fare altro, di sperimentare altre scritture, sempre facendo tesoro di quel che abbiamo imparato scrivendo romanzi storici.
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