Letteratura
I miei Maestri di lettura e le loro consonanze
Prendete Gustave Flaubert, Antonio Gramsci e Alberto Arbasino e vi chiederete se non stanno assieme in una testa, la mia, come delle schegge in una bomba. Eppure sono gli autori che ho letto di più in tutta la mia vita: i miei tre numi intellettuali tutelari da quando ho avviato le mie letture adulte, diciamo dai diciassette anni in poi. Col passare degli anni, a vita assestata e letture sedimentate, ho scorto dei sorprendenti tratti in comune nei tre. Che sottopongo alla vostra attenzione. Sicuramente non i fruitori (e probabilmente nemmeno i più sagaci teorici) del trash sospettano che queste tre grandi intelligenze critiche si sono cimentate proprio con l’estetica del trash, e in certo qual modo l’hanno teorizzata (secondo le proprie specifiche urgenze interiori e necessità tematiche, naturalmente).
1) Gustave Flaubert per tutta la vita fu ossessionato dalla stupidità, non solo quella immediata e corrente della vita reale, quanto da quella mediata e proiettata nei libri e nella pubblicistica della propria epoca. Con un montaggio analogo a quello utilizzato dagli autori del Blob televisivo ( i più astuti e crudeli praticanti il trash della nostra epoca) ne fece un centone che solo qualche decennio fa e solo in Italia – non in Francia- è stato pubblicato (Bouvard e Pécuchet, Lo Sciocchezzaio, Rizzoli, Milano, 1997). Una massa orrenda e maleodorante di luoghi comuni, di citazioni di terza mano, di false idee chic; un’accozzaglia orripilante di sentenze senza fondamento, di bestialità scientifiche, di bizzarre credenze, di “conclusioni” senza costrutto. Flaubert era ovviamente attratto e respinto dalla guasta materia che maneggiava; ed in fondo era mosso – nella sua furia collezionatrice ad un tempo intelligente e bête – dalla convinzione che la bêtise intellettuale ed estetica altro non è che una forma di sublime visto dal basso. Anche la sua eroina, Emma Bovary – come il suo antecedente letterario neanche tanto nascosto, il divino e stupido don Quijote (di cui Emma è stata definita “la cugina scema”) – è sorpresa a ingozzarsi, fino a perdere la reale cognizione di se stessa, di letteratura trash: entrambi vittime illustri, il divino Hidalgo e la “petite femme”, dei guasti silenziosi e implacabili della lettura e della cattiva letteratura.
2) Antonio Gramsci nel tentativo di spiegarsi perché mai la nostra letteratura nazionale, a differenza di quella francese o russa, non fosse anche popolare (ossia letta da tutti, anche dalle portinaie), incominciò da un lato a indagare l’aspirazione cosmopolita (non nazionale) dei nostri intellettuali, ne individuò i perenni atteggiamenti da “mandarino” (preziosità ridicola) e il distacco dalle correnti della vita reale della gente comune, e dall’altra – elmetto e lampada da minatore in testa – scese nei sottoscala della letteratura popolare leggendo “la casalinga di Voghera” ovvero Carolina Invernizio, “l’onesta gallina della letteratura popolare”, Ponson du Terrail, ecc. con l’intenzione di scrutare da presso le dinamiche profonde di questo tipo di letteratura, che un tempo il critico francese Sainte-Beuve definì littérature industrielle e che oggi, sulla scia del critico americano Dwight Macdonald definiremmo masscult. La sua è una delle più acute e serrate analisi dell’estetica della ricezione del trash popolare. Gramsci, al pari di Flaubert, tentò anche un catalogo delle sciocchezze intellettuali della propria epoca, un suo personale Blob, e redasse perciò la rubrica del “lorianesimo” (da Achille Loria), un centone esilarante delle “bizzarrie”, soprattutto degli intellettuali positivisti.
3) Alberto Arbasino, fin dalle sue primissime prove letterarie (Anonimo Lombardo, Specchio delle mie brame e soprattutto Fratelli d’Italia), ha perseguito una vertiginosa, intelligentissima (e snobissima) estetica Camp e Kitsch (allora non si usava il termine trash con le valenze estetiche che gli riconosciamo adesso), di mescolanza dei livelli highbrow e lowbrow ( Virginia Woolf), del sublime e del pecoreccio ponendo sullo stesso rigo il D’Origlia Palmi e il Rosenkavalier di Richard Strauss, Totò e Adorno, “la casalinga di Voghera” della cronaca e Ivy Compton-Burnett in un frullato di prosa italiana ad alto voltaggio estetico, leggero e profondo, acuto e scanzonato ad un tempo, disimpegnato in superficie ma denso di un moralismo di tradizione civile lombarda in profondità. Al pari di Flaubert e di Gramsci (a quest’ultimo però rimproverava di approntare, in carcere, le trame dei successivi conformismi mentre si interrogava su quel grande critico teatrale e prosatore che egli sarebbe stato se si fosse dedicato solo a ciò), Arbasino ha redatto un suo personale Sciocchezzaio, il Blob, della propria epoca, e l’ha archiviato nel volume Un Paese senza, un’ implacabile raccolta dei luoghi comuni e dei conformismi intellettuali dell’Italia degli anni ’70-’80, utilissima per comprendere l’Italia di sempre.
Cosa mi hanno insegnato questi tre Maestri? Che il confine tra il sublime e la sciocchezza è sottile come un velo di cipolla e che occorre attivare nel momento in cui si legge tutte le risorse dell’intelligenza critica, che sta a noi lettori il compito di scorgere le “relazioni pericolose” e le omologie strutturali di un testo, che solo spingendo la lettura a oltranza fino ai confini dell’enciclopedismo si capisce che “tutto si tiene”.
In poche parole questi Maestri mi hanno insegnato a leggere.
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