Letteratura
I faccendieri in un Paese dall’establishment sfilacciato e avventizio
C’è nell’immensa produzione di Dostoevskij un racconto brevissimo dal titolo “Bobok” in cui lo scrittore russo inscena uno straordinario “dialogo dei morti” (da noi l’ha fatto Totò con “A livella” questo piccolo “Spoon river” letterario). Secondo Michail Bachtin in questo brevissimo racconto c’è “tutto” Dostoevskij, nientemeno. Ebbene in “Bobok”, un personaggio oltretombale, il barone Klingevič, si autodefinisce “un furfante del mondo pseudosuperiore” (nella mia edizione Garzanti la versione reca “furfante del cosiddetto bel mondo”).
Ora, vorrei tirare alcune osservazioni su questi furfanti del cosiddetto mondo pseudosuperiore o furfanti del cosiddetto bel mondo. In questo racconto lo stesso Klingevič, che si autonarra dicevamo, definisce sprezzantemente delle “putride pastoie” la morale pubblica. E invero tali personaggi che infestano le sfere superiori della società se ne infischiano delle regole del mondo, ossia quelle imposte non solo dai codici civili e penali, ma da quel residuo di norme interiorizzate, e ancora condivise, di chi ritiene che il mondo non sia o non possa essere una giungla; non le riconoscono semplicemente perché loro obbediscono soltanto alle “proprie” regole che sono esclusivamente acquisitive, e perché ritengono il mondo proprio una giungla, una savana, in cui tutte le mattine un leone e una gazzella si svegliano ecc ecc. Tutto ciò che risponde al loro tornaconto, quella e solo quella è la regola.
La letteratura universale è piena di siffatti personaggi per la semplice ragione che ne è piena la vita. Uno di questi è quel Felix Krull di Thomas Mann (“Confessioni del cavaliere di industria Felix Krull”) le cui autonarrazioni – i furfanti infatti a fine carriera amano raccontarsi, tendono alla confessione pubblica e gli artisti gli cedono volentieri la parola perché essi raccontino dal di dentro la loro “versione” – in italiano sono state rese come quelle di un “cavaliere di industria”, che non vuol dire uno che ha ricevuto speciali onorificenze dal Presidente della Repubblica, ma proprio un uomo che vive di espedienti (questo vuol dire in italiano antico ed elegante tale locuzione). Nel titolo originale Mann opta per “Hochstapler” (impostore) ma nel tedesco dei “bon vivant” si usa spesso la locuzione di “Lebenskünstler” ossia “artista della vita”, uno che se la sa sfangare con raffinatezza in questo basso mondo da vero e proprio artista del vivere. E il nostro Felix (“nomen omen”) vi si muove con agio ed eleganza; seduttore instancabile, ladro all’occorrenza, strepitoso carrierista: da lift-boy in albergo a cameriere e infine a uomo di mondo.
In Italia di questi furfanti del cosiddetto mondo pseudosuperiore, di questi Lebenskünstler o di questi volgari furfanti tout court, è piena la scena pubblica e ogni tanto escono dall’ombra e infestano le cronache. Essi sono realisti, dicono “il mondo è fatto così e io non faccio che seguire le leggi del mondo”; sono senza principi (cinici) tranne il proprio, si muovono in cricche, bande, cordate, perché vivono di combine e di intrigo. Non hanno alcuna coscienza della loro eccessiva “letterarietà”, perché non conoscono i romanzi, non li leggono, pensano che sia roba per signorine; essi si muovono senza “mediazioni” di sorta nella vita, sono sinceri e “immediati”, diretti, e vivono di appetiti mostruosi. Costoro, in un Paese dall’establishment molle e avventizio come quello italiano, con questi mezzucci possono arrivare ad altezze supreme dei poteri pubblici e scalare così tanto il mondo degli affari e della politica da raggiungere anche la Presidenza del Consiglio (ma forse è una mia esagerazione) e di rappresentare degnamente il genius loci italico con grande soddisfazione collettiva e “rispecchiamento” antropologico nazionale. Ma, ecco il punto, nei piani appena più in basso, ma bellamente insediati nelle stanze dei bottoni, si muove tutta una fauna di furfanti matricolati che in genere noi amiamo chiamare “faccendieri” (in Francia “brasseur d’affaires” e uno di questi è quell’ Isidore Lechat di “Gli affari sono gli affari” di Octave Mirbeau.
Se ieri fu il momento di Pio Pompa, oggi sembra essere il turno di Raffaele “Lino” Pizza. Nel frangente di questa cronaca tutta italiana di presunti faccendieri sorpresi dalle intercettazioni all’opera (l’hanno chiamata operazione “Labirinto”) il romanziere mancato o l’Icaro che è in me si strugge dal desiderio di sapere, giunti a questo capitolo del nostro romanzo pubblico, come l’ex AD di Poste Italiane, per esempio, uomo di una serietà rastremata e compunta (che altri scambiavano a torto per inestinguibile grigiore) dai modi molto british e dall’aplomb di uomo dai vasti disegni aziendali, si rapportasse con questi personaggi vernacolari e dai nomi già da commedia all’italiana di cui ci dicono le cronache di questi giorni. O che rapporti intrattenesse con quelle turbe fameliche del profondo Sud che chiedono, tramite i loro rappresentanti politici o i loro congiunti, posti alle Poste, come sempre, quel “sempre” storico che coincide con il tout change et rien ne change gattopardesco ed eterno dell’Italia (soprattutto sicula, essendo l’Isola la più famelica e la più decisiva nel momento del voto) del sottogoverno, del parastato. Personaggi dicevo che si moltiplicano e pullulano nei rivoli dell’acqua sporca dell’indicibile ma nascosto Vero Potere, che è sempre quello, da sempre: dove si muovono o molti soldi o molti posti: l’INPS, le Poste, l’INAIL, l’ANAS, e adesso dicono anche il CSM ecc. ecc.
Chi ci racconterà mai, nel dettaglio di una cronaca sincera o nella forza metaforica di una narrazione romanzesca (due tipi di scrittura che potrebbero coincidere in una penna ispirata), che mentre le Prime Linee, i Lebenskünstler del Gran Mondo della Politica, dell’Economia – del Potere in una parola – ossia gli ufficiali ma fittizi Decisori visto che sono in realtà gli “organigrammi informali” e “ufficiosi” a decidere nomine e allocazione di risorse, chi ci racconterà, dicevo, che mentre i primi si offrono alle parate e alle sfilate pubbliche, al peperepé del TG1, ci sono nell’ombra questi “soliti ignoti” che tramano, ordiscono indefessi e contano pure le mazzette con le macchinette contasoldi fedelmente e grottescamente registrati dalle intercettazioni ambientali? Ci sarà mai qualcuno che ci darà le liaisons dangereuses dei Furfanti del cosiddetto Gran Mondo come il barone Klingevič e i magliari che agiscono e trescano nell’ombra come il Vautrin di Balzac?
Ne ho conosciuti ovviamente durante la mia vita anteriore sia di artisti della vita del Gran Mondo ufficiale, sia di quello piccolo piccolo ma potentissimo, del mondo ufficioso. E li ho sempre visti tutti con grande ammirazione “letteraria”, anche questi magliari del sottogoverno. Attenzione: ciò non vuol dire che abbia consentito con la loro morale, tutt’altro. (Le batoste che si prendono solo a pronunciare senza ossequio fonetico, anzi con qualche punta di fastidio, i decisori informali!). Come tutti i pensosi e penosi sconfitti con qualche lettura alle spalle ho solo esaminato la loro grande abilità in quell’arte (non è infatti una scienza, ma un arte che chiede interpreti, attori, artisti) che è il vivere. Per questo in Germania li chiamano Lebenskünstler, no? Ho capito tramite loro, e pertanto sono loro immensamente riconoscente, ad esempio, che il principio dell’esistenza (non mio, ma oggettivo) è l’adattamento, in senso darwiniano: averci il becco o la zampa rostrata al posto e al momento giusto per sopravvivere in e a quell’ambiente ostile che è la vita e il mondo. Altro che buoni studi o talento, andiamo!
E infatti l’amato Balzac mi aveva già ammaestrato in quel capolavoro assoluto che è le “Illusioni perdute”, dove si muove il briccone “fieffé” (matricolato), il briccone di tutti i bricconi, Vautrin alias Trompe-la-mort, alias Carlo Herrera che ritorna anche nel “Papà Goriot” e in “Splendori e miserie delle cortigiane” a insegnare ai giovani imberbi Rastignac e Lucien de Rubempré l’ “arte”del vivere; l’aveva scritto bello e asciutto il grande Balzac: «L’intrigo è superiore al talento: dal nulla produce qualcosa; mentre perlopiù le immense risorse del talento servono solo a fare l’infelicità dell’uomo».
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