Economia circolare
I bar-librerie: dove incontri e scambi non hanno smesso di accadere
“Una libreria con il flipper. Lo aveva fatto mettere Feltrinelli, naturalmente, e, quando arrivava, per prima cosa si metteva a giocare con quegli aggeggi […] e accanto al flipper il baraccone della Coca-Cola, il tiro a segno con le freccette, tanti manifesti alle pareti e anche un juke-box.”
Carlo Feltrinelli ricorda così, nel suo Senior Service, la prima importante rivoluzione attuata da suo padre nel mondo delle librerie. Erano gli anni ’60, leggere era un atto politico e perché un atto politico sia fertile – allora era evidente – c’è bisogno di confronto e di scambio. Una libreria con il flipper, i manifesti alle pareti e il juke-box era un posto in cui fermarsi, passare del tempo, incontrare qualcuno e magari discutere di letture e di rivoluzioni.
Feltrinelli aveva insomma intuito che la libreria doveva diventare una piazza, perché è lì, nel “fare piazza”, il momento e il luogo in cui vengono nuove idee: è lì che ci si mischia, si chiacchiera, si discute, si allarga il cerchio.
Negli ultimi cinque o sei anni, più o meno mentre fuori si svuotavano le vere piazze (non solo Colonne a Milano, ma anche i Murazzi a Torino, via Zamboni a Bologna, San Lorenzo a Roma), il testimone è tornato in mano ai librai: hanno colto un’esigenza nell’aria e una nuova piccola rivoluzione si è compiuta. È cominciato il tempo delle librerie-caffè, o bar-librerie. Non parlo ovviamente delle grandi Feltrinelli o Mondadori, dove il bar c’era ma era già impersonale e impostato come quello di un aeroporto, con una scelta di prodotti anonima e standard tanto sul piano culinario quanto su quello culturale. Sono nate librerie indipendenti, con una visione del mondo e una scelta di titoli limitata e specifica, e soprattutto con un bar inteso come invito a restare, a passare del tempo fra i libri, a non andarsene alla fine di una presentazione ma darsi la possibilità di far succedere qualcosa. Danilo Dajelli, pioniere di questo format a Milano con Gogol & Company, ne parla come di una “terza piazza, un luogo di permanenza, un posto di libri e birra che unisse due passioni, schierato contro il modello di città ultra rapida. Un posto dove ti siedi, ti alzi, guardi i libri, ti fermi a studiare, a chiacchierare”.
Ora il Covid ha imposto di ridurre drasticamente gli incontri, gli eventi, le possibilità di scambio.
A differenza di altri luoghi di cultura come teatri e circoli, i “bar-librerie” sono rimasti aperti, dovendo però modificare in parte il loro “concept” e mettere in campo risorse e strategie per affrontare le difficoltà economiche e sociali – nel tentativo di sopravvivere economicamente e soprattutto di non affossare completamente quel fondamentale versante sociale su cui si basa il loro lavoro.
Così, mentre le grandi catene (col bar ma da tempo senza flipper) sono state colpite gravemente dalla pandemia (a Milano ha addirittura chiuso la storica Mondadori di via Marghera), è interessante scoprire come alcuni di questi spazi possano dichiarare di aver incrementato in maniera sostanziale la vendita di libri, arrivando spesso a numeri più alti rispetto al 2019 nonostante i due mesi di chiusura fra marzo e aprile di quest’anno.
Diverse librerie si sono organizzate per la vendita a domicilio. Francesco Sala di Anarres racconta: “Andare in casa delle persone è stato molto gratificante sul piano umano, e anche dal punto di vista economico ha contribuito a pagare le spese fisse che comunque si hanno anche a locale chiuso”. Ognuno poi ha trovato escamotage diversi, dai pacchi sorpresa di Colibrì alle tessere regalo della stessa Anarres.
Un grande aiuto è stato dato da Bookdealer, piattaforma e-commerce arrivata a settembre e fondata da lavoratori dell’editoria indipendente con il preciso intento di sostenere attivamente le librerie indipendenti: anziché acquistare sui grandi store on-line, i lettori possono scegliere la libreria da sostenere, in qualunque parte d’Italia si trovi. Spiega infatti Francesco Sala: “ha aggregato molti lettori e lettrici consapevoli del ruolo sociale e culturale delle librerie indipendenti. Le vendite su questo canale hanno sicuramente aiutato nel complesso a non subire troppi danni, ma ci hanno anche fatto capire tangibilmente quanta parte del mercato si sia spostata on-line e la pandemia ha fatto certamente incrementare questa fetta. Facciamo questa considerazione perché sicuramente aggiunge complessità ulteriore ad un mestiere che già non è semplice”.
Molti hanno proposto presentazioni e gruppi di lettura online, ma particolarmente interessante è l’esperienza di Colibrì e Verso che durante l’estate e i primi mesi dell’autunno hanno intessuto relazioni con spazi affini per organizzare eventi in ambienti più ampi, all’aperto: Colibrì con Ostello Bello (sulla cui triste chiusura per aver adibito le proprie terrazze a spazi esterni per il pubblico c’è da stendere un velo pietoso), Verso con Biblioteca Sormani, Fuori, Enoteca Naturale. Esperienza, a detta di Arianna Montanari di Colibrì, da riproporre in futuro a prescindere dal Covid, a dimostrazione del fatto che uno spazio vivo è uno spazio che sprigiona una visione del mondo: condividere, fare rete, favorire gli incontri, forse, se non spezzare, almeno allargare le bolle in cui viviamo.
Danilo Dajelli di Gogol sottolinea anche come la pandemia abbia da una parte favorito il bisogno di inserire il libro in un “quotidiano più lento e slow”, portando a un aumento importante delle vendite, dall’altra abbia stimolato una riconsiderazione del territorio: è emersa l’esigenza di “calpestare il territorio del conosciuto. Il quartiere è un microcosmo e lo si vuole calpestare per stare bene in un momento di insicurezza come questo. Anche i soldi si sente la necessità di farli rimanere all’interno del quartiere”. Sono arrivati nuovi clienti, mai visti prima in libreria, “che chiedono libri come Bruno Vespa, cose che non c’entrano nulla con Gogol: non cercano la competenza ma il territorio, un’economia circolare”.
Anche Davide Mosca di Verso ha registrato l’avvento di nuovi lettori e osserva: “il pubblico si è un po’ diversificato, non c’è più quello della sera e delle presentazioni che veniva da tutte le zone di Milano, molti hanno anche dovuto lasciare la città”.
I lettori, insomma, non sono mai mancati, anzi: si sono costruite nuove relazioni e hanno invaso con entusiasmo (e distanze di sicurezza) Anarres e Colibrì nei momenti in cui hanno avuto la possibilità di riaprire il bar e i dehors sono stati pieni finché il clima l’ha permesso e fin dalla riapertura di maggio-giugno nuovi clienti sono arrivati proprio con l’idea di voler sostenere una determinata attività in un determinato territorio.
Ma ecco il punto dolente. Le aperture e chiusure, in particolare negli ultimi mesi di zone gestite a “Strega comanda colr”, sono state faticose per tutti. Danilo Dajelli, che ha mantenuto il bar chiuso senza nemmeno l’asporto, racconta: “è stata una scelta – necessaria per la storia cha abbiamo. Abbiamo sempre lavorato intessendo rapporti con l’enogastronomia, portando il vino milanese dall’unico vitigno presente qui, legandoci a produttori e narrazioni: si tratta di un investimento di denaro non indifferente”. Dove c’è una scelta consapevole, la selezione dei prodotti non può essere casuale: si fonda anzi sulla relazione con singoli produttori e questo comporta tempi e costi “umani”. Aprire e chiudere ogni settimana non è una possibilità. Danilo continua: “le materie prime sono difficili da prendere se non so quanto sto aperto, accendere la luce ha costi esorbitanti, siamo al limite della sopravvivenza. La libreria va molto bene, però manca tutta l’alta fetta. Quindi si taglia tutto il tagliabile. Tre o quattro persone se ne sono andate senza che ci fosse bisogno di licenziarle: grazie rapporti costruiti negli anni, ci siamo aiutati a vicenda, qualcuno ha trovato un altro lavoro, altri sono andati in cassa integrazione”.
Anche Verso ha preferito non riaprire il bar, sia per ragioni di costi sia per lasciare spazio ai lettori, potendone ospitare solo sei alla volta con gli ingressi contingentati. Ma soprattutto, spiega Davide Mosca, per loro il bar era strettamente legato agli eventi: da quando sono nati ospitavano un incontro quasi ogni sera. Non potendo fare presentazioni hanno preferito concentrarsi su libreria e consegna. Cresce sempre più però il desiderio di tornare a ciò che caratterizzava l’anima non solo di Verso ma di almeno una parte della città stessa, che su questi incontri e scambi fondava la parte più viva e creativa di sé.
Arianna Montanari di Colibrì invece spiega che, negli ultimi mesi di zone colorate, la libreria non è stata aperta a pieno regime ma solo su appuntamento: la loro non è né zona residenziale né di passaggio e restare sempre aperti avrebbe costi troppo alti, meglio impegnarsi sulla consegna a domicilio. In zona gialla però hanno aperto il bar: “non con la speranza di un guadagno ma col desiderio di dare un segnale”.
Un’esperienza particolare è certamente quella di Anarres, che aveva inaugurato nel centro di Nolo solo tre mesi prima del lockdown di marzo. Francesco Sala racconta: “La nostra idea (e tale rimane) è far sì che il nostro locale sia un luogo di cultura e d’incontro per cui nasce strutturalmente con attività di ristorazione e di libreria pensate e organizzate in maniera simbiotica, cercando sempre di mantenere un equilibrio fra le due. La mancanza (totale o parziale) di uno di questi due assi ha certamente creato grosse difficoltà economiche e organizzative. A questo si aggiunge per noi la difficoltà di un locale di nuova apertura che stava cercando ancora di definire una sua precisa dimensione e una sua utenza.
Da subito abbiamo deciso di non utilizzare gli strumenti dello streaming per portare avanti le iniziative culturali. La nostra specificità era quella di diventare un punto di riferimento fisico per l’incontro delle persone tramite gli interessi culturali e questo punto per noi resta. Nulla da dire sulle molte librerie che hanno fatto scelte diverse producendo anche momenti culturali ben fatti e importanti, ma per nostra scelta non abbiamo voluto ingrassare la bulimia digitale di contenuti video che ora pensiamo inizi a pesare un po’ a chiunque. Di certo abbiamo cambiato la nostra comunicazione cercando di creare contenuti sulla cronaca locale e non, cercando di dire la nostra e segnalando punti di vista non presenti normalmente nella sfera pubblica, che poi è un po’ la missione che ci siamo dati aprendo il nostro posto. In generale, la pandemia è stata un pungolo organizzativo non indifferente e ci ha mantenuto estremamente dinamici come team e come circolazione d’idee. Sotto questo particolare profilo abbiamo avuto il vantaggio di essere neonati e più portati al cambiamento rispetto a realtà più consolidate che hanno magari faticato ad aggiustare il passo nella frenesia di normative e situazioni che cambiavano da una settimana con l’altra.” Così nel giro di pochi mesi hanno messo in pratica idee “che all’inizio pensavamo di poter attuare con calma, introducendo l’usato, l’e-commerce, le consegne a domicilio, il sito, le tessere fedeltà, la gift card…”.
Pur non potendo fare un confronto con anni precedenti se non per gennaio e febbraio, possono affermare che la vendita dei libri sia riuscita a tenerli a galla, un risultato importante e per nulla scontato per un’attività così giovane: “Significa che in questi mesi difficili il nostro progetto è stato riconosciuto dal quartiere nonostante le limitazioni, e di questo siamo molto grati e gratificati. Ovviamente una libreria con 5.000 volumi non può matematicamente sostenere il peso di 6 stipendi. La nostra è una struttura pensata per far lavorare anche 6-7 persone solo tra bar e cucina, per questo la (magrissima) cassa integrazione è stata importante per far entrare almeno qualcosa nei mesi di chiusura di questa attività. Di ulteriori contributi, dopo il primo ristori, non si è visto più nulla”.
Per questi spazi, infatti, ricevere il giusto sostegno dallo Stato si è rivelato particolarmente difficile.
Trattandosi di attività ibride, possiedono un doppio codice Ateco: uno principale come libreria e uno collaterale, per il bar. La burocrazia si è sempre distinta per la sua inguaribile lentezza nell’accorgersi dei cambiamenti sociali in atto, e a fatica ha saputo adattarsi alle commistioni di attività che si sono ampiamente diffuse negli ultimi anni. Chi ha pensato la norma ha immaginato solo situazioni in cui l’Ateco prevalente prevalesse per il 90-95% del fatturato: “l’art.1 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 stabilisce che per sostenere gli operatori dei settori economici interessati dalle misure restrittive introdotte per contenere la diffusione dell’epidemia Covid-19, è riconosciuto un contributo a fondo perduto a favore dei soggetti che, alla data del 25 ottobre 2020, hanno la partita IVA attiva e, ai sensi dell’articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633, dichiarano di svolgere come attività prevalente una di quelle riferite ai codici ATECO riportati nello stesso decreto 137. Dunque la normativa prevede un criterio di “attività prevalente”, ossia quella che consegue il maggior volume d’affari”, spiega la Segreteria Nazionale ALI Confcommercio.
I ristori di questi mesi, quindi, sono stati assegnati solamente a chi ha subito perdite nell’attività principale. In molti casi però il peso del fatturato delle due attività quasi si equivale e, se la vendita dei libri è sorprendentemente riuscita a farle sopravvivere, la chiusura in parte o in toto del bar ha pesato enormemente.
Molti bar-librerie, soprattutto i più grandi, si sono trovati in questa situazione: Verso, Gogol, ma anche, per esempio, Confraternita dell’Uva di Bologna e la neonata Anarres stanno lottando con Confcommercio per fare luce su questo problema. Davide Mosca confida in un provvedimento e fa notare che Verso ha tenuto chiuso il bar per un anno intero per ragioni di prudenza e sarebbe un peccato non essere ricompensati. Francesco Sala osserva: “Privare tali realtà degli aiuti concessi alla ristorazione è stata una dimostrazione di profonda ignoranza del settore. Chi si è occupato di redigere queste norme evidentemente non conosce il successo che ha avuto questo tipo di realtà nel contribuire alla diffusione del libro in Italia e l’importanza che hanno in un settore economicamente difficile, ma anche essenziale dal punto di vista culturale”.
Intanto, mentre speriamo che la burocrazia colga l’occasione per adattarsi al nuovo e all’ibrido, magari concentrandosi sulla perdita di fatturato e non sul codice Ateco, possiamo credere che sia da queste “terze piazze” che potrà riprendere lo scambio di idee e il contatto soprattutto non virtuale perché in qualche modo – prima entrando in casa delle persone con la consegna a domicilio, poi diventato punto di riferimento nel territorio e a volte anche alleandosi e scambiandosi con altre realtà vicine o affini – in questi luoghi tutto ciò non ha mai smesso di accadere.
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