Letteratura

Humanae litterae e cultura scientifica

10 Marzo 2016

In un pungente articolo dal titolo “Passato, presente e futuro della ricerca scientifica italiana” Carlo Bernardini ricostruisce l’avventura delle scienze  svoltasi  su un terreno impervio qual è stato il nostro Novecento  nella doppia insidia   da un lato dell’egemonia dell’idealismo crocio-gentiliano e dall’altro dei forti legami che l’idealismo in quanto cultura dominante seppe intrecciare con il sistema politico nei primi decenni del secolo e oltre a scapito proprio delle scienze. Tale stato di cose provocò  una “vera e propria strage di vocazioni” scientifiche, anche per via dell’egemonia perdurante dopo l’epoca fascista – nella scuola infatti Gentile aveva saputo mettere  le mani con la nota riforma  e nella cultura in genere (anche quella marxista aggiungo io) Croce tenne  un indiscusso prestigio che durò per decenni.

Bernardini ricostruisce con un pizzico di stizza le fatiche  sostenute  da uomini di scienza quali Federigo Enriques nel difendere  la rivista “Scientia” fondata nel 1907  dalle furiose bordate dei pontefici massimi dell’idealismo. Ma rassicura: «Benché Croce e Gentile si adoperassero per emarginare ogni forma evoluta di cultura scientifica, matematici e fisici già nei primi decenni del ‘900 presidiavano con testimonianze indistruttibili la presenza italiana in quei territori. Con due storie evolutive diverse: i matematici alimentando una tradizione già consolidata; i fisici creandola dal nulla grazie alla miracolosa azione illuminata di alcuni formidabili scienziati-organizzatori».

Ancora oggi, pur  in mezzo all’analfabetismo di ritorno e alla cultura umanistica generalista (il  manzonismo degli stenterelli, il  dantismo declamatorio  e stantio dei vecchi presidi), le scienze in Italia, grazie a sorgive e inaspettate  vocazioni riescono a mantenersi in forza e  prestigio. E di ciò non si può che  compiacersi e sperare che possano prosperare nella terra che dopotutto ha dato i natali tra gli altri a  Galileo, Torricelli e Fermi.

Al quadro tratteggiato con acume da Bernardini occorrerebbe accostare quanto evidenziato, per lo stesso periodo storico,  da Norberto Bobbio nel fondamentale “Profilo ideologico del Novecento” italiano ove l’indagine, rispetto alle “scienze dure” di cui si occupa Bernardini  nel suo articolo,  si allarga alla lotta intrapresa  dall’idealismo contro il positivismo intorno alle scienze sociali. È vero che il nostro positivismo fu di scarsa levatura; se vi capita di leggere il Gramsci anti-positivista e cripto-crociano della rubrica “Lorianesimo” nei “Quaderni”, ove sfotte a sangue tutte le bizzarrie intellettuali del positivismo italiano (vedi le supposte influenze dell’altimetria sullo spirito dei popoli che porterebbe  i montanari ad essere moralmente più puri ma a triplicare le consonanti mentre quelli di pianura sarebbero moralmente più depravati e “scempiano” le consonanti),  avrete un catalogo delle mostruosità di tale filosofia che in tali  “uscite” fantasiose spesso atterrava. Lo stesso Bobbio, che pure è il filosofo più attento alla tradizione scientifica italiana – suoi sono gli studi, nel silenzio incernierato dell’altra cultura novecentesca egemone, il marxismo –  condotti su Cattaneo o sugli scienziati politici come Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto –  non è tenero con il positivismo quando scrive:

 Bisogna anche riconoscere che non fu una buona filosofia. Ma la sua importanza non era filosofica: stava nella mentalità positiva, non speculativa, di cui quella filosofia, anche mediocre, era insieme lo stimolo e il rispecchiamento. Purtroppo la ‘scuola positiva’ italiana accolse nel suo seno più positivismo che positività. Certamente incoraggiò lo sviluppo delle scienze, in particolari delle scienze sociali che avevano sempre condotto vita grama alla grande ombra della filosofia ‘presuntuosa e sterile delle scuole italiane’; diede qualche contributo non spregevole al progresso della criminologia con Cesare Lombroso e i suoi discepoli; avviò studi di sociologia, di etnologia, di psicologia delle menti associate (per usare una felice espressione di Cattaneo), che non avevano mai avuto molta fortuna in Italia; aprì con Gaetano Mosca la strada, che non andò molto lontano, degli studi scientifici della politica; soprattutto diede occasione e impulso a una fioritura di studi economici, a una vera e propria scuola di economia italiana, da Pantaleoni a Pareto, a Einaudi, di cui non ci fu più l’eguale in Italia. Ma non fu una filosofia originale e tanto meno una ‘filosofia dell’avvenire’: anzi, quando arrivò in Italia ed ebbe il suo massimo splendore nell’ultimo decennio del secolo (…), era nei paesi di provenienza in declino. L’idealismo uccise in realtà un moribondo, cui non concesse il beneficio della lenta agonia.

Comunque sia andata, soffocando  il positivismo in Italia si è in qualche modo scoraggiato la mentalità scientifica per altro verso nei secoli passati fortemente conculcata  dalla Chiesa cattolica per la quale sia il razionalismo critico come il metodo logico-sperimentale confliggevano con la sua concezione cosmologica e con l’impostazione magico-sacramentale che si preferiva coltivare nelle coscienze dei fedeli. È un fatto evidente. Ciò detto, e sperando adesso che molte menti umanistiche sappiano catturare  con la dovuta attenzione lo spirito delle scienze non resta che auspicare che anche gli scienziati più smarriti all’interno delle proprie discipline sappiano dotarsi di quello  spirito leggero e acuto che necessita  per la lettura di un testo letterario, la visione di un film, di uno spettacolo teatrale. Fatto che è molto raro  riscontrare francamente presso gli uomini di scienza e tecnica  anche per via della spaventosa specializzazione delle discipline scientifiche nel frattempo intervenuta. Si tratta insomma, e dico qualcosa quasi impossibile da realizzare per parte mia, umanista integrale e totalmente somaro in fatto di scienza, di far convivere nella stessa testa  le due formae mentis che  inizialmente coesistevano in sommi ingegni quali Cartesio o Pascal,  ossia esprit de finesse e esprit de géometrie. Grande e temeraria sfida.

Altra osservazione che seppur in maniera spuria  metto qui in evidenza grazie a  Luca Nicotra (vedi qui)   è ricordare che,  mentre le lettere sono intimamente connesse per mezzo della lingua nazionale al genio dei singoli popoli (esiste una letteratura o una filosofia araba, francese, italiana, tedesca, russa) e ne esprime in qualche modo l’anima come ricordava Mme de Staël,  la scienza parla un linguaggio universale, che è di tutti i popoli. La dote delle conoscenze scientifiche passa da popolo a popolo ed è difficile nella pratica quotidiana  attribuire  a questo o a quel popolo la singola conoscenza scientifica. se non attraverso specifiche ricostruzioni storiche.

***

Mi avvio alla conclusione  riportando  alcune  ardite  riflessioni di parte umanista che per certi aspetti sono anche una sorta di provocazione nei confronti degli scienziati e dei tecnici che non avrei personalmente  mai osato avanzare non avendone autorità e competenza; sono  infatti di George Steiner e di Frank. Raymond  Leavis, due mostri sacri delle  Humanities anglosassoni. Steiner nel saggio d’apertura intitolato  “Humanae litterae” del suo bel volume “Linguaggio e silenzio” scrive questa pagina netta e chiara:

 Le scienze arricchiranno il linguaggio e le risorse del sentimento (come mostrò Thomas Mann in Felix Krull, è dall’astrofisica e dalla microbiologia che potremo mietere i nostri miti futuri, i termini delle nostre metafore). Le scienze riplasmeranno il nostro ambiente e il contesto della disponibilità o della sussistenza in cui la cultura può germinare. Ma pur possedendo un fascino inesauribile e una bellezza frequente, soltanto di rado le scienze naturali e matematiche hanno un interesse definitivo. Esse cioè hanno aggiunto poco alla nostra conoscenza o al dominio delle  possibilità umane; c’è maggior penetrazione del problema dell’uomo ( e lo si può dimostrare) in Omero, in Shakespeare o in Dostoevskij, che in tutta quanta la neurologia o la statistica. Nessuna scoperta della genetica eguaglia o supera ciò che Proust sapeva del fascino o del fardello della discendenza; ogni volta che Otello ci ricorda la ruggine di rugiada sullo stelo lucente abbiamo un’esperienza maggiore della realtà sensuale e transeunte in cui deve trascorrere la nostra vita di quella che la fisica ha il compito o l’ambizione di comunicare. Nessuna sociometria dei moventi o delle tattiche politiche è più importante di Stendhal.

Ed è proprio l’«obiettività», la neutralità morale di cui le scienze si compiacciono e in cui pervengono alla loro brillante consonanza di sforzi, che vieta loro una rilevanza definitiva. La scienza può aver offerto strumenti e insani pretesti di razionalità a quelli che hanno concepito l’omicidio di massa. Non ci dice quasi nulla dei loro moventi, un punto su cui invece varrebbe la pena di ascoltare Eschilo e Dante. Né, a giudicare dalle ingenue dichiarazioni  politiche avanzate dai nostri attuali alchimisti, può far molto per rendere il futuro meno vulnerabile al disumano. Gran parte della luce che possediamo sulla nostra condizione essenziale, interiore, è tuttora colta dal poeta”.

Per parte sua F.R. Leavis nel XII capitolo dal titolo “Due culture? Il significato  di C. P. Snow” del volume “Da Swift a Pound – Saggi di critica letteraria” (Einaudi 1973) affronta invece direttamente  il celebre saggio di Snow sulle due culture (umanistica e scientifica) che di prammatica viene citato ogni qualvolta si affronta tale controverso incontro/scontro. Raramente ho letto una stroncatura così franca, frontale  e spietata di un libro  per suo conto celebre e che ha fatto epoca. Leggo attacchi alla persona di inusitata violenza: « Il giudizio che devo esprimere è che Snow non solo non è un genio, ma che  è intellettualmente tanto insignificante quanto è possibile esserlo». Se gli intelletti superiori sono della loro epoca, ebbene « il rapporto di Snow con la sua epoca è di natura diversa: è caratterizzato non da intuito ed energia spirituale, ma da cecità , da inconsapevolezza ed automatismo. Egli non sa cosa intende e non sa di non saperlo». Ancora: « Le due culture dimostra una assoluta mancanza di distinzione intellettuale ed una imbarazzante volgarità di stile».  Segnalo e salto il fatto che  Snow si accredita sia come romanziere e quindi letterato scatenando i  latrati rabbiosi del letterato Leavis, sia come scienziato che alla luce del fallimento della prima vanteria getta cattiva luce anche su  questa seconda faccia che Snow intendeva invece sottolineare per darsi una autorità aggiuntiva che gli deriverebbe dal controllo delle due culture appunto;  salto anche la sferzante accusa di «nullità intellettuale evidente nel suo uso del termine “cultura”» per concentrarmi, al di là di questi scostanti argomenti ad hominem, sulla sostanza della polemica che però mi è sembrata più debole rispetto a quella di  Steiner.

Ebbene, anche per Leavis la cultura umanistica ha un particolare rilievo nella vicenda umana.  Di fronte all’affermazione di Snow che l’edificio scientifico del mondo fisico  nella sua profondità intellettuale, nella sua complessità e articolazione sia il “più meraviglioso prodotto collettivo della mente umana» Leavis ribatte semplicemente  che «c’è stata prima un’altra conquista della collaborazione creativa umana, un’operazione più essenziale della mente dell’uomo (…) un’opera senza la quale l’erezione trionfale dell’edificio scientifico non sarebbe stata possibile, cioè la creazione del mondo umano, che comprende la creazione del linguaggio». Ritorna il tema della centralità della letteratura: « È nello studio della letteratura, in primo luogo della letteratura della propria lingua, che si arriva a riconoscere la natura e la priorità del terzo regno (come io lo chiamo, in modo indubbiamente poco filosofico, parlando con i miei allievi), il regno di ciò che non è semplicemente privato e personale, né pubblico nel senso che lo si possa portare nel laboratorio e indicarlo agli altri. Non si può far vedere una poesia: essa esiste soltanto nelle menti individuali che la ricreano rispondendo ai segni neri sulla pagina. Ma – questa è una fede necessaria – è qualcosa in cui le menti possono incontrarsi».

Come si vede il dibattito non trova e non può trovare una soluzione accettabile e condivisa dai due blocchi. Specie se ci si ostina a voler propendere per una delle due opzioni in campo. Literacy e numeracy com’è ovvio sono entrambi competenze e saperi  necessari alla vita umana e alla convivenza civile poiché la cultura umanistica senza quella scientifica può riuscire  vuota, mentre quella scientifica senza quella umanistica, cieca. Senza tacere che la cultura scientifica ha il vantaggio che  se ci complica molte matasse ce ne sbroglia altrettante, mentre quella letteraria spesso si aggiunge al problema quando pretende di essere l’unica soluzione e complica di più le teste meno atte a riceverla. Lasciare impregiudicata la questione mi sembra la cosa più saggia da fare quantomeno.

Aggiungo solo  la mia annotazione personale, frutto di osservazione partecipante. Ho spesso visto esposizioni scientifiche in molti campi, in quello della cultura manageriale per esempio che si vanta di approssimazioni più vicine alla scienza che alle humanities, ove un profluvio di istogrammi a canne d’organo e miriadi di casi empirici  potevano tranquillamente essere resi con la pagina di un romanzo o l’episodio di una tragedia greca. Ho constatato che l’intuizione analogica spesso arriva prima al cuore delle cose della lunga articolazione logica. Ho visto  che l’esprit de geométrie gira in tondo e accumula materiali su materiali  quando non si accompagna all’acuto  esprit de finesse e che spesso una vasta e curiosa cultura romanzesca può davvero sostituire l’accatastarsi di miriadi di  case studies, essendo il mondo dei romanzi  un gigantesco magazzino o trovarobato dell’agire umano, dove agevolmente attingere all’occorrenza, e che infine, nella pretesa “scienza”  della politica o della semplice conduzione delle risorse umane in campo aziendale, per esempio, valga di più la battuta di Flaubert secondo il quale «un uomo che sa svolgere bene una metafora può pur ben guidare degli  imbecilli».  (lettera del 5-6 marzo 1853)

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