Letteratura

How does it feel – Essere stranieri in tempo di pandemia

10 Aprile 2020

Qualche mese fa, tornando a Firenze dopo un concerto a Londra, avevo fatto caso alla disinvoltura con cui noi, noi che siamo bianchi e abbiamo un passaporto occidentale e magari siamo nati negli ultimi 50 o 60 anni, ci muoviamo per il mondo. E perché abbiamo più o meno tutti una conoscenza della koiné ufficiale che va dalla goffa infarinatura scolastica a una vera padronanza dell’inglese, ci muoviamo, o ci siamo sempre mossi fino a qualche settimana fa, senza doverci mai sentire troppo stranieri, tanto meno in occidente, tanto meno in Europa che è casa nostra, di tutti gli europei, dove si viaggia senza passaporto, si fa l’erasmus, si lavora insieme in aziende ibride, si vive oggi qui domani là senza doverne rendere conto, più di tanto, a nessuno.

Ma stranieri, quando si è fuori dal proprio paese o anche solo dalla propria città, lo si rimane sempre. È un colore che si confonde fra gli altri fintanto che, un giorno, non riemerge più nitido che mai.

Gli informatori di Juan Gabriel Vásquez è un romanzo uscito per la prima volta nel 2004 e riedito ora da Feltrinelli, con ottimo tempismo perché ci fa riflettere su uno dei vari complessi risvolti di ciò che stiamo vivendo in queste settimane.

Vásquez, autore colombiano, nato nel 1973 a Bogotà, narra una pagina triste e spesso dimenticata della storia del suo paese.

Negli anni ’40 il governo colombiano, dopo aver cercato di limitare il più possibile l’arrivo di ebrei dall’Europa, rendendo più difficile ottenere i visti man mano che la situazione nel Vecchio Continente si faceva più critica, si sentì però in dovere di prendere posizione contro il nazismo e di stilare delle “Liste nere” in cui venivano inseriti i cittadini di origine tedesca sospettati di simpatizzare con il regime.

In quegli anni molte vite furono distrutte, molti uomini si trovarono per leggerezza, per eccesso di zelo verso la legge, per meschinità, a diventare “informatori”, denunciando e tradendo presunti filo nazisti.

Gli Informatori tratteggia la storia della giovinezza di Gabriel Santoro e della sua amica Sara Guterman, una ragazza ebrea che con i genitori aveva trovato rifugio in Colombia nel ’38, e del loro amico di origini tedesche Enrique Deresser, e del padre di Enrique, Konrad Deresser. Tutti giravano attorno all’Hotel Pensión Nueva Europa, che divenne “prima di tutto un luogo di ritrovo per gli stranieri”. A quel tempo infatti la Colombia “sembrava essere il paese di immigrati che non era mai stato. C’erano quelli che erano arrivati a inizio secolo in cerca di fortuna, (…) quelli che erano fuggiti dalla Grande guerra, la maggioranza dei quali tedeschi che si erano sparpagliati per il mondo tentando di guadagnarsi da vivere, cosa che ormai nel loro paese era diventata impossibile; e c’erano gli ebrei. Fu così che questo finì per essere né più né meno che un paese di rifugiati. E quel paese in fuga era finito tutto all’Hotel Pensión Nueva Europa”.

E mentre Gabriel, colombiano doc, era affascinato da quell’ambiente cosmopolita e desideroso di imparare il tedesco, Enrique, di origini tedesche, lo respingeva, cercava di cancellare le tracce di germanicità che gli restavano addosso, di mimetizzarsi il più possibile, come a volersi liberare del germe di rischio insito nella sua singolarità. E in effetti, poi, durante il buio periodo delle liste nere, essere tedeschi era diventato all’improvviso un pericolo. Le scuole tedesche venivano chiuse, le vetrine dei negozi prese a sassate, la lingua proibita. Da un momento all’altro le origini importavano di nuovo e da un momento all’altro si diventava stranieri.

E poteva forse capitare a un colombiano come un altro di diventare informatore per meschinità o soltanto per leggerezza, per aver detto poche parole sbagliate alla persona sbagliata; o poteva forse capitare a un tedesco come un altro di finire vittima della diffidenza per “aver scambiato i propri ortaggi con il denaro dei franchisti”.

Tanto che un giorno del 1943 anche il padre di Enrique, Konrad Deresser – che si era trasferito in Colombia da più di vent’anni, da quando il trattato di Versailles aveva reso impossibile la vita in Germania, e che lì in Colombia si era sposato, aveva fatto un figlio, l’aveva cresciuto, e intanto lavorava, viveva, era – un giorno anche Konrad Deresser era tornato a essere straniero, a essere guardato di sottecchi, ed era stato denunciato per aver una volta difeso, non in pubblico ma durante una cena in casa, non il nazismo ma la sua Germania. E si era visto d’un tratto inserito nelle liste nere, a clienti e fornitori era vietato lavorare con la sua azienda, e clienti e fornitori rispettavano l’ordinanza perché non volevano “mettersi nei guai”, e gli chiedevano “di capirli, per favore”, gli dicevano che non doveva avercela con loro, che “quando tutta questa storia sarà finita torneremo a fare affari, figuriamoci”.

L’unico modo per sopravvivere era quello adottato da Enrique: perdere l’accento, rifiutare le proprie origini, mescolarsi fra gli altri per non essere riconosciuto.

Anni fa ho sentito la direttrice di un teatro di Milano raccontare l’incontro virtuoso tra culture attraverso il cibo. Nella cucina ebraica si intinge il pane nell’hummus. Il pane mantiene la propria natura, non si fonde come farebbe nel brodo. Accoglie il sapore dell’hummus, ci entra, fino in fondo, se ne ricopre, lo ascolta e si fa penetrare dal suo gusto, restando pur sempre pane. Nel brodo invece tutto si mescola e non si riconosce più alcun sapore.

Ecco, lo straniero, sembra affermare Enrique, è al sicuro solo quando si scioglie nel brodo del nuovo mondo, dimenticando la propria consistenza: “non voleva avere niente a che fare con quelle cose. Voleva essere un personaggio senza fondale. Un essere piatto, schiacciato, a due dimensioni. E quando usciva, era come se volesse essere un’altra persona. La lingua era, praticamente, una delle poche cose che gli consentiva di farlo. Con quell’aspetto, parlare in colombiano era come mettersi una tuta da sub e tuffarsi in mare (…). Per la prima volta Enrique constatò quello che suo padre aveva sempre saputo: siamo quello che diciamo, siamo come lo diciamo”. La tensione di Enrique alla perfezione della lingua ricorda quella di Canetti nella Lingua salvata, dove l’identità di Canetti passa anche attraverso il perfetto apprendimento dell’inglese, del tedesco, o addirittura del dialetto zurighese parlato dai suoi compagni di scuola. Padroneggiare completamente la lingua tanto per Canetti quanto per Enrique è strumento di libertà: mimetizzandosi non si viene notati, si smette di essere diversi e dunque si è liberi di essere se stessi. Eppure quest’attenzione implica il sottinteso per cui non nascondere la propria “estraneità”, mantenere il proprio accento, per così dire, sia pericoloso. Konrad Deresser non era riuscito, o in fondo non aveva voluto, cancellarsi, diventare parte del “brodo”.

In una lettera scritta da Konrad Deresser durante la reclusione che seguiva la comparizione nelle liste, Gabriel legge: “Tutte le lettere devono essere in spagnolo e devono superare una censura terribile. Le consegniamo aperte a un incaricato e lui le legge e chiede spiegazioni. Staranno cercando qualche spia. Ma il fatto è che qui spie lo siamo tutti, per il semplice fatto che abbiamo cognomi che loro non riescono a pronunciare. Ci hanno fatto le visite mediche, manco avessimo qualche malattia contagiosa. Essere tedeschi è una malattia contagiosa.”

 

Posso immaginare come i cinesi che da decenni vivono a Prato, a Firenze, o a Milano e non per forza in via Sarpi – chi completamente integrato, chi meno, chi nato qui – a gennaio si siano visti all’improvviso tenuti a distanza dagli italiani come inconfutabili portatori del virus che infestava il loro paese d’origine. E si saranno chiesti (loro e chiunque avesse tratti asiatici) come fosse possibile che chi aveva condiviso spazi e quotidianità con loro fino al giorno prima potesse da un giorno all’altro rifuggirne il contatto, come se non fossero stati contagiosi ieri ma oggi, d’un tratto, sì. Integrati o no, erano tutti diventati stranieri.

È passata qualche settimana, e prima l’Italia è diventata straniera al resto d’Europa, poi ogni stato e ogni regione ha deciso di proteggersi dai vicini rinchiudendosi nei propri confini. È durato poco, per fortuna, ma è successo. Ora il problema in questione, il virus, è diventato globale e muoversi è impossibile per tutti e non sappiamo quando e se torneremo a muoverci con la stessa facilità di prima. A maggior ragione diventa fondamentale ricordarsi di quella prima istintiva reazione che ha portato molti a vedere l’untore nello straniero. Così anche noi, che siamo sempre stati abituati a viaggiare mostrando con disinvoltura i documenti, o non mostrandoli nemmeno, e a vivere in una città o in un’altra d’Italia o d’Europa come se fossimo a casa nostra, scopriamo (e faremmo bene a ricordarci) come ci si sente, how does it feel, direbbe Bob Dylan, quando attraversare un confine diventa un’impresa faticosa e spesso costosa; quando la signora del piano di sopra di una casa a Lisbona chiama il proprietario per avvertire che “Qui ci sono due italiane!” anche se magari quelle due italiane non mettono piede in Italia da ben prima del corona virus; o quando, restando nel proprio paese, alcune regioni stilano ordinanze che rendono stranieri gli abitanti delle altre regioni e bisogna all’improvviso addurre giustificazioni se si vive in un comune che non è quello di residenza. Quando, insomma, si viene trattati da stranieri, come Konrad Deresser negli anni ’40 o i cinesi ormai quasi italiani solo qualche mese fa. Bob Dylan risponderebbe: “Like a Rolling Stone”.

 

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