Letteratura
Gustave Flaubert e la religione
Nelle sue opere più autobiografiche della primissima giovinezza, come “Agonie” o “Le memorie di un pazzo”, è particolarmente evidente in Flaubert l’espressione di una impossibile fede in Dio e nella vita soprannaturale
Flaubert e la religione
Gustave Flaubert nacque in una famiglia di medici chirurghi. Suo padre e suo fratello esercitavano la professione nel locale Hôtel- Dieu, l’ospedale di Rouen. I biografi sono concordi nel rilevare l’ambiente di estrazione illuminista in cui si muove il piccolo Gustave. Si tratta ovviamente di una ricezione spontanea in ambito domestico del deismo di Voltaire e del pensiero di esponenti del secondo illuminismo (detti “idéologues”, uno di costoro, Marie François Xavier Bichat, è indicato come maestro di Charles Bovary: lo fu in realtà del padre, Achille-Cléophas).
Il deismo come è noto è quella concezione filosofica che non negava, come l’ateismo di d’Holbach, Diderot e Helvétius, la divinità ma contestava soltanto le confessioni religiose che se ne erano impadronite. Il Dio di Voltaire era perciò a-confessionale, senza Chiese di riferimento, regolatore dell’universo sì (Dio orologiaio), punitore e remuneratore anche, ma essenzialmente un garante e regolatore dell’ordine pubblico, era dunque un Dio necessario come “instrumentum regni”, per tenere a bada la populace, tanto che: «Si Dieu n’existait pas, il faudrait l’inventer» recitava il suo celebre verso dell'”Epistola all’autore del libro dei tre impostori” (1769) . Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo. Sartre, ne “L’idiota della famiglia” dà Flaubert, sulla scia familiare, paterna e materna, come ateo. No, era deista alla Voltaire argomenta Jean Bruneau: «Per quanto ne so, il dottor Flaubert era deista come sua moglie e molti dei loro amici; i Flaubert non andavano a Messa né ricevevano i sacramenti; non c’è alcuna prova che avessero paura della “Congregazione”. [Sartre aveva asserito che la famiglia Flaubert fosse condizionata da questa potente associazione cattolica, la “Congrégation”, una specie di “Opus Dei” dell’epoca, che agì tra il 1800 e il 1830]. Il partito di opposizione a Rouen era solidamente organizzato; molti notabili erano deisti e non ne facevano mistero all’inizio del XIX secolo.»
“L’idiota della famiglia”, la diluviana “biografia” di Sartre di Flaubert — in verità un trattato di psicologia o psicoanalisi esistenzialista—, ha dato filo da torcere ai flaubertisti accademici o appassionati quorum ego, per le sue imprecisioni e illazioni pochissimo documentate. Ne sono venuto a capo, personalmente, grazie alla precisa introduzione che ne fa Massimo Recalcati nella nuova e recente ripubblicazione (2019), ma di ciò a parte. Anticipo solo dicendo che per Recalcati “L’idiota della famiglia” è un libro più su Sartre che su Flaubert.
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Nelle sue opere più autobiografiche della primissima giovinezza, come “Agonie” o “Le memorie di un pazzo”, è particolarmente evidente in Flaubert l’espressione di una impossibile fede in Dio e nella vita soprannaturale: «Ho cercato e non ho trovato nulla» conclude con il “quaesivi et non inveni” del “Cantico dei cantici”, già nella più tenera età.
C’è solo un momento di sbandamento secondo ciò che si legge in una pagina intima del febbraio 1840 — Flaubert diciannovenne — che precede di qualche mese la prima sbandata sentimentale e la conoscenza carnale a Marsiglia di una donna né serva né prostituta: «Se c’è un Dio, un Dio buono, un Dio padre di Gesù, che dona la sua grazia, il suo spirito, io lo riceverò e mi prosternerò». [“Ricordi, note e pensieri intimi”]. Ma fu una sbandata passeggera.
Sicuramente l’avventura di Marsiglia funzionò da spartiacque nel sistema sentimental-intellettuale di Flaubert: quantomeno pose fine ad una pericolosa china mistica — piuttosto frequente nel «devoto» Ottocento — attestata da quei passi di diario, misticismo che mai più si ripresenterà se non nella forma parodica, grottesca o intellettualmente sorvegliata della “Tentazione”, e dei “Tre racconti” (“Un cuore semplice” in cui una povera “servante” scambia il suo pappagallo per lo Spirito Santo). Si trattava di Eulalie Foucaud de Langlade, una trentacinquenne pettoruta (tetonnière) amata intensamente a Marsiglia (dirà di una straordinaria “fouterie de delices” con i Goncourt), dopo gli esami di maturità durante un viaggio premio che dalla Bretagna lo portò in Corsica.
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È proprio in “Novembre”, il romanzo giovanile che riporta quella travolgente esperienza sessuale con Eulalie, scritto nel 1842 e pubblicato postumo solo nel 1910, che si possono leggere queste note apertamente autobiografiche.
«Sono nato con il desiderio di morire. Niente mi sembrava più stupido della vita e più vergognoso che trattenerla. Cresciuto senza religione, come i miei coetanei, non ho avuto l’arida felicità degli atei né l’ironica spensieratezza degli scettici. Senza dubbio per capriccio, se qualche volta entravo in una chiesa, era per ascoltare l’organo, per ammirare le statuette di pietra nelle loro nicchie; ma quanto al dogma, non sono arrivato fino a questo. Mi sentivo il figlio di Voltaire. [“Novembre”].»
Per tutta la vita restò fermo in lui il proposito dell’incredulità. In una lettera all’amico di infanzia Ernest Feydeau (il padre del futuro brillante commediografo dei vaudevilles) si legge: «Non ribellarti all’idea dell’oblio. Invocalo invece! Le persone come noi devono avere la religione della disperazione. Dobbiamo essere all’altezza del destino, cioè essere impassibili come lui. A forza di dire a noi stessi: “Così è, così è, così è”, e di contemplare il buco nero, ci si calma». [ A E. Feydeau, 18 nov 1859].
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Un mondo senza Dio e senza Dei
Il “buco nero” dell’incredulo ritornerà in una lettera che colpì Marguerite Yourcenar, vorace lettrice del suo epistolario secondo molti un vero capolavoro, e che sta sullo sfondo delle di lei “Memorie di Adriano”. È una lettera del 1861 (non meglio datata) indirizzata a Madame Roger des Genettes. Una missiva breve e molto bella che comprende argomenti di poetica letteraria, alcune osservazioni su Lucrezio e la melanconia degli Antichi, e una frase breve e pungente su un momento speciale della storia umana in cui l’uomo si trovò solo senza Dèi e senza Dio. La traduco parzialmente. «Un buon soggetto del romanzo è quello che viene tutto d’un pezzo, di un solo getto. È una idea-madre da dove tutte le altre discendono. Non si è mai del tutto liberi di scrivere questa o quella cosa. Non si sceglie un soggetto. Si viene scelti da un soggetto. Ecco ciò che il pubblico e i critici non comprendono. Il segreto dei capolavori è là, nella concordanza del soggetto e del temperamento dell’autore. Avete ragione, bisogna parlare con rispetto di Lucrezio; non gli vedo comparabile che Byron, e Byron non ha né la gravità, né la sincerità della sua tristezza. La melanconia antica mi sembra più profonda di quella dei moderni, che sottintendono tutti più o meno l’immortalità al di là del buco nero. Ma per gli antichi, questo buco nero era l’infinito stesso; i loro sogni si formano e passano su un fondo d’ebano immutabile. Niente grida, niente convulsioni, fuorché la fissità di un viso pensoso. Gli Dèi non essendoci più e Cristo non essendoci ancora, ci fu, da Cicerone a Marco Aurelio, un momento unico in cui soltanto l’uomo c’era, solo.»
Il tema dell’azzardo delle spiegazioni, della riprovazione che egli esprime verso la pretesa del “voler concludere”, di voler dare una spiegazione a tutto, è centrale nel “pensiero” di Flaubert [ricordo che per Flaubert un artista è un “triple penseur”] unitamente a uno scetticismo radicale sia sul mondo in sé sia sulla sua interpretazione, che giudicava sempre provvisoria, incompleta, fallace, in ultima istanza presuntuosa e destinata al fallimento ridicolo tipico della bêtise dotta come quella dei suoi sinistri e comici savants Bouvard e Pécuchet. L’artista di fronte a questo mondo inesplicabile può al massimo tentare la strada della pura RAPPRESENTAZIONE.
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La ritualità stanca di una religione
Il 6 aprile del 1846 Gustave Flaubert assiste alla cerimonia del battesimo della nipotina. Così scrive il giorno dopo all’amico Maxime du Camp: «La piccola, gli assistenti, io, il curato stesso che aveva appena pranzato ed era coi paramenti non comprendevamo uno più dell’altro ciò che stavamo facendo. Considerando tutti questi simboli insignificanti per noi, avevo la sensazione di assistere a qualche cerimonia di una religione lontana riesumata dalla polvere. Era tutto semplice e a tutti noto eppure non mi riprendevo dallo stupore: il prete borbottava al galoppo un latino che non capiva, noi per parte nostra non ascoltavamo, la piccola teneva la testolina nuda sotto l’acqua che le si versava, la candela bruciava, e il sagrestano rispondeva amen. Ciò che v’era sicuramente di più intelligente a colpo sicuro erano le vecchie pietre [della chiesa] che avevano altre volte compreso tutto ciò e che forse ne avevano serbato qualcosa». (G.F. “Correspondance” vol I, Pléiade, p. 262, mia traduzione).
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Ancora qualche anno dopo, nella redazione dell’Educazione sentimentale del 1845, in pagine scopertamente autobiografiche si legge: «Amando poco la propria patria, comprendeva l’umanità; non essendo né cristiano né filosofo, aveva simpatia per tutte le religioni; non ammirando più la Tour de Nesle [edificio altissimo parigino] e avendo disimparato la retorica, sentiva ogni tipo di letteratura. [ES 1845] » e anche «Odiava i preti, che chiamava tutti ipocriti, tartufi, ma affermava tuttavia che c’era bisogno di una religione per il popolo. Essendo proprietario, difendeva la proprietà, tremava sempre per la propria e aveva paura del proletariato. [ES 1845].»
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Qualche anno dopo durante il suo viaggio in Oriente —29 ottobre 1849-16 giugno 1851—, «la terra dove sono nate le religioni» scrive in una lettera: «Gerusalemme è un carnaio cinto da muraglie. Gli ebrei polacchi con i loro berretti di pelle di volpe vanno silenzosi lungo i muri scrostati, all’ombra dei quali il soldato Turco indolente srotola, continuando a fumare, il suo rosario musulmano. Gli Armeni maledicono i greci, i quali detestano i latini che scomunicano i Copti. Tutto ciò è ancora più triste che grottesco. (…) Il Santo Sepolcro è l’agglomerazione di tutte le maledizioni possibili. In un piccolo spazio, c’è una chiesa armena, una greca, una latina, una copta. Tutti si ingiuriano, si maledicono dal fondo dell’anima, sconfinando sul vicino a proposito di candelabri, di tappeti e di quadri, quali quadri! È il pascià turco che ha le chiavi del Santo Sepolcro; quando lo si vuole visitare, occorre andare a cercare le chiavi da lui. Se il Santo Sepolcro fosse stato dato in custodia ai cristiani si sarebbero massacrati infallibilmente. Con prova. “Tantum religio, etc.”, come dice il gentile Lucrezio. [Allusione al celebre verso 101 del libro I, del “De rerum natura” di Lucrezio, Tantum religio potuit suadere malorum/ A un così atroce misfatto poté indurre la religione”, a proposito del sacrificio di Ifigenia.
In un’altra lettera di qualche giorno dopo scrive all’amante Louise Colet al ritorno dal lungo viaggio in Oriente. «La superstizione è la base della religione, l’unica vera, quella che sopravvive al di sotto di tutte le altre. Il dogma è una questione di invenzione umana. Ma la superstizione è un sentimento eterno dell’anima di cui non possiamo liberarci. Oggi Rouen era piena di processioni e di tabernacoli. Quanto stupido è il popolo! Finora abbiamo rispettato questa idea. Ma quelle di regalità, autorità, diritto divino, nobiltà sono state disprezzate; solo l’idea di popolo è rimasta in piedi. Deve trascinarsi così in basso nell’ignominia e nella stupidità che noi a nostra volta abbiamo pietà di lui e che si riconosca chiaramente che non c’è nulla di sacro. Il secolo mi annoia prodigiosamente. Da qualunque parte mi giri, non vedo altro che miseria. Parole, parole e che parole!» [A L. Colet 1852 data imprecisata].
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È singolare che un mezzo miscredente stia a gironzolare continuamente attorno ai santi. Se ne accorse lo stesso Flaubert non certo privo di autoironia quando in una lettera scrisse: «Conoscete i “Fioretti di San Francesco”? Ve li racconto perché mi sono appena concesso questa lettura edificante. E, a questo proposito, trovo che, se vado avanti così, avrò il mio posto tra les lumières [si noti l’acuta ironia di adottate un termine “illuminista” in ambito ritenuto solitamente oscurantista] della Chiesa. Sarò uno dei pilastri del tempio. Dopo Sant’Antonio, San Giuliano; e poi San Giovanni Battista, non esco dai santi. Per questo farò in modo di non essere “edificante”. La storia di Erodiade, a quanto ho capito, non ha nulla a che fare con la religione. Ciò che mi affascina qui è l’apparizione ufficiale di Erode (che era un vero prefetto) e il volto feroce di Erodiade, una sorta di Cleopatra e Mme de Maintenon.» [A Mme Roger de Genettes 19 agosto 1876].
Si potrebbe continuare a citare. Ma frugando un’ultima volta nel suo epistolario trovo quest’ultima. «Se la società continua così, vedremo di nuovo, credo, i mistici come ce ne sono stati in tutti i secoli bui. Non potendo espandersi, l’anima si contrarrà. Non è lontano il tempo in cui torneranno il deliquio universale, le credenze sulla fine del mondo e l’attesa di un Messia. Ma, mancando la base teologica, dove troverà ora il suo punto di appoggio questo entusiasmo sconosciuto? Alcuni lo cercheranno nella carne, altri nelle antiche religioni, altri nell’Arte; e l’umanità, come la tribù ebraica nel deserto, adorerà tutti i tipi di idoli. […] Se venisse meno il sentimento dell’insufficienza umana, del nulla della vita (che sarebbe la conseguenza della loro ipotesi), saremmo più stupidi degli uccelli, che almeno si posano sugli alberi.» [A L. Colet, 4 settembre 1852].
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Ma se questi sono i sentimenti privati in fatto di religione, affiora in pubblico una certa cautela circa la propria incredulità. Nel “Dizionario delle idee ricevute”, la raccolta di bon mot e di idee chic, si leggono propositi ironici di reticenza.
CONVERSAZIONE: La politica e la religione devono esserne escluse.
RELIGIONE (la): Fa parte dei fondamenti della società. È necessario per la gente, ma non serve troppo. “La religione dei nostri padri” va detto con unzione di retorica.
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