Letteratura
Guadagnare l’uscita
Alcuni dicono che ho litigato con il presidente.
E’ vero.
Non è il motivo delle mie dimissioni, ma è vero.
Diciamo che abbiamo avuto una discussione un tantino accesa.
Me ne stavo tranquillo ad esaminare alcuni documenti, quando lui, attraversando il corridoio che ci separa, si è infilato nella mia stanza.
Voleva sapere da me, il suo Responsabile delle Risorse Umane, perché negli ultimi tempi tanti uomini di valore hanno lasciato l’azienda per finire alla concorrenza.
E’ un tipo curioso il Grande Capo.
Non nel senso di strano o di bizzarro, proprio nel senso di curioso. Gli piace sapere il perché delle cose. Gli piace anche farsi delle domande. Sostiene che le risposte le sanno dare tutti, mentre la cosa più difficile è farsi delle domande.
Sarà.
Il fatto è che tutte le domande alla quali non sa trovare una risposta poi le gira a me.
Anzi, a pensarci meglio, gira a me anche le domande alle quali sa trovare una risposta. Per mettermi alla prova o per cercare una conferma alle proprie valutazioni.
L’ho fissato per qualche secondo.
Dio mio, quanto è vecchio, pensavo, perché non se ne sta a casa?
E’ stato un bell’uomo. Fisico atletico, capelli candidi fin da giovane, ma incredibilmente folti, occhi chiari.
Trent’anni fa, quando l’ho conosciuto, era anche una persona di prim’ordine. Lucidissimo, sicuro del fatto suo, svelto nel decidere, orientato alle cose essenziali. Un vero capo.
Adesso è solo un vecchio dal fisico appesantito e gli occhi acquosi che rimane aggrappato alla poltrona perché non ha alternative ragionevoli.
Del resto che farebbe fuori di qui dalla mattina alla sera un uomo del genere? Niente nipotini perché il figlio sta in America, niente moglie perché è vedovo da diverso tempo, amanti credo proprio di no perché non sembra il tipo, anche se non è mai detto.
Non ama il cinema, legge a malapena il giornale, detesta passeggiare, non gli piace viaggiare .
Ho pensato per qualche secondo alla risposta che potevo dargli.
Potevo inventarmi la solita complessa analisi pseudosociologica.
Potevo rassicurarlo con le statistiche sulle uscite per dimissioni delle altre aziende del settore.
Potevo esibire il dato riguardante le persone che a nostra volta abbiamo assunto sul mercato sottraendole alle imprese concorrenti.
Insomma potevo confezionare in quattro e quattr’otto la rassicurante non risposta che probabilmente si aspettava e tornare serenamente al mio lavoro.
Me ne è mancata semplicemente la forza.
Mi sono sentito molto stanco, l’idea di ricorrere ai consumati automatismi del mestiere all’improvviso, non so perché, mi dava la nausea.
Gli ho detto allora, continuando a guardarlo fisso negli occhi, che aveva ragione a preoccuparsi.
Chi se ne va, ho detto, lo fa sostanzialmente per due motivi: alcuni lo fanno perché non capiscono che cosa vogliamo esattamente da loro, altri perché si rendono conto che non gli consentiamo di esprimersi.
In pratica quelli che vorrebbero essere guidati non hanno una guida, coloro che vorrebbero inventare delle soluzioni sono scoraggiati. Rimangono giusto i mediocri e i conformisti.
La faccia che ha fatto!
Non avrebbe avuto quell’espressione sconcertata nemmeno se lo avessi insultato.
Non ho lasciato l’azienda perché gli ho detto quelle cose (anche se la discussione che ne è seguita è stata una delle meno concilianti della mia vita di persona conciliante).
Né ho detto quelle cose, come sussurrano i maligni, perché avevo in animo di lasciare l’azienda.
E’ vero invece che nel momento stesso in cui ho cominciato a dirle, ho capito che l’unica cosa sensata che potevo fare era andarmene.
Guadagnare l’uscita.
Il miglioramento continuo, lo sviluppo dei business, la produttività, l’efficienza, quante volte i miei discorsi sono stati infarciti di queste trite parole d’ordine?
Mi chiedo se c’è mai stato un momento in cui ci ho creduto veramente.
Mi chiedo grazie a quale fatale forza di inerzia, a quale meccanismo perverso io abbia potuto continuare così a lungo un gioco in fondo così poco divertente.
All’inizio, quando avere un posto di lavoro era condizione essenziale per vivere, questa recita, oltre ad essere necessaria, offriva qualche spunto di soddisfazione.
Questo è il mondo dell’esteriorità, pensavo, non c’è nessuno che vuole la tua anima, non interessa a nessuno quello che pensi veramente, ti chiedono solo di partecipare ad un gioco, ad una rappresentazione. Fallo con questo spirito e divertiti.
Poi, a poco a poco, e con intensità crescente negli ultimi tempi, mi sono accorto che questa vita, che dentro di me continuo a definire secondaria, di facciata, ha invece distrutto ogni altro tipo di vita possibile.
Mi sembra di essere un attore che, per un assurdo incantesimo, non possa mai raggiungere il camerino.
Levarsi delicatamente il cerone, il trucco, disfarsi degli abiti di scena e finalmente restare se stesso.
Questo è in fondo quello che mi piacerebbe fare.
Quello che non so più esattamente, dopo tanti anni, è quello che troverò sotto quella maschera. C’è una persona autonoma, autosufficiente, oppure semplicemente un individuo stremato e velleitario?
Mi chiedo se veramente conosco la parte di me alla quale desidero dare spazio.
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