Letteratura

“Gli Anni” di Annie Ernaux

7 Ottobre 2022

Annie Ernaux – Gli anni – L’orma editore, 2015 (traduzione di Lorenzo Flabbi).

Annie Ernaux è molto ammirata in Italia da alcune scrittrici in auge per via di una parolina magica: “autofiction”. Si tratta di un modo nuovo, o uno più articolato non l’ho capito ancora, di dire “autobiografia”, ossia di una forma di autonarrazione che si percepisce diversa – non saprei dire se a buon diritto – rispetto alle tradizionali forme espressive dello “scrivere di sé”. Fino a questo nuovo modo di indicare la stessa cosa infatti, “l’autofiction” si manifestava in letteratura con  a) l’autobiografia vera e propria (penso alle Confessioni di Rousseau) o per restare sempre in ambito francese c’era il modo b) indicato mirabilmente da Chateaubriand in Mémoires d’outretombe «On ne peint bien que son propre cœur, en l’attribuant à un autre». Sì: si dipinge il proprio cuore proiettandolo in un personaggio: Stendhal in  Julien Sorel per fare un esempio. Ciò  che adesso si ama chiamare “autofiction” era in qualche modo già in uso a me pare: in maniera biunivoca per giunta,  nel senso che era facile che Rousseau  si romanzasse nella sua autobiografia,  e che, di contro,  Stendhal mentre romanzava il proprio io si “confessasse” nel romanzo per interposta persona.
Entrambi i modi rispondono alla vecchia formula  già adottata sornionamente da  Zavattini con il suo libro Parliamo tanto di me.  In fondo sia le scrittrici italiane  che qui Ernaux, come anche i molti che impugnano la penna, questo fanno:  parlano tanto di sé, rendono oggetto di narrazione la propria vita. L’ alternativa sarebbe il romanzo  di documentazione, che non pesca nella propria interiorità ma nel sociale o nella storia pur partendo, una volta steso redazionalmente il materiale documentario,  da un punto di irraggiamento unitario che è la coscienza dell’artista. Pensate a Zola che scriveva sia di Borsa che di miniere senza essere un finanziere o un minatore, ma documentandosi su entrambi gli ambienti narrativi.

Nel libro che ho appena finito – Gli anni –  è però  di scena una particolare forma di autofiction,  dubito addirittura che ci sia la fiction propriamente detta,  e quando c’è non è  il racconto tradizionalmente inteso, con degli “eventi” e degli “esistenti” ossia, con un’azione e dei personaggi:  una vicenda insomma, una “storia” narrata. La Ernaux, si apprende, ha vietato di  apporre  sui suoi libri qualsiasi dicitura esplicativa che accompagna di solito i volumi degli altri: “roman“, “récit“,  “essai” ecc. E infatti non è  un racconto, non è  un romanzo,  non è  un saggio ma tutti questi tre generi fusi assieme.  Come c’è il tessuto-non- tessuto così qui c’è la narrativa- non-narrativa. Il registro prevalente  è però quello logico-discorsivo,  tipico del saggio più  che della narrazione.
Per dare un’idea faccio tre carotaggi: all’inizio a metà  e nel sottofinale, e leggo:

«Ce n’era per tutti, la penna Bic, i campioncini di shampoo monouso, i sottotovaglia di gomma e i pavimenti in PVC, i Tampax e le creme per la peluria superflua, la plastica Gilac, il Terital, le luci al neon, il cioccolato al latte con le nocciole, il bicimotore VéloSoleX e il dentifricio alla clorofilla. Non ci si capacitava di tutto il tempo risparmiato grazie al minestrone in busta, alla pentola a pressione, alla maionese in tubetto. Si preferivano le conserve ai prodotti freschi, trovando più chic servire delle pere sciroppate rispetto alle fragole, i piselli in scatola rispetto a quelli dell’orto».

Ebbene qui, come nella lunga, scucita e sussultante rêverie che apre il volume,  dalla scatola dei ricordi emergono di continuo liste di cose, di immagini, di rammemorazioni umidicce immerse nella luce crepuscolare del tempo andato, ma non sono le liste ironiche alla Gozzano delle buone cose di pessimo gusto, qui sono bagnate  in una luce di rimembranza allo scopo di uncinare il lettore con molti decenni alle spalle, e far scattare la mozione degli affetti geriatrica du temps jadis.
Oppure:

«Elvis Presley, Bill Haley, Armstrong, i Platters incarnavano la modernità, l’avvenire, e cantavano soltanto per noi, per noi giovani, lasciandosi alle spalle i gusti fuorimoda dei genitori e l’ignoranza dei buzzurri, Il paese del sorriso, André Claveau e Line Renaud. Ci sembrava di far parte di un circolo ristretto di iniziati».

E infine:

«La conversazione, dominata dalle voci maschili, aveva come argomento più solenne le prestazioni dei loro computer, si confrontavano i PC e i Mac, le «memorie» e i “programmi”».

Proprio come nel programma tv italiano di qualche anno fa  “Le ragazze” condotto da Gloria Guida, in Gli  anni si apre una immaginaria scatola delle foto e si parte da una istantanea che spesso reca una data, “Yvetot 1957” per esempio (l’ultima foto è del 2006), si individua la ragazzina bionda, voce narrante e protagonista  e da lì parte il racconto-non-racconto che illustra eventi biografici commisti a fatti storici, politici, di costume, del mondo dello spettacolo, di tutto ciò  che segna un anno,  un decennio, un’epoca, come abbiamo visto dai carotaggi.
Ma l’assenza della forza agglutinante di una trama come che sia non crea tensione e rende parzialmente noiosa la rievocazione del “qui e allora”  (locuzione che è tipica della fotografia  e che traggo dal  saggio la  Camera chiara di Roland Barthes) di quella istantanea che ci viene sottoposta. La foto è un pretesto per dare la stura a un simil-saggio o simil-racconto in cui non si dà  nulla tranne un ricordo trattato sociologicamente sui fatti della storia francese del momento, spesso con riferimenti particolarissimi (il suicidio di Gabrielle Russier)  che sfuggono anche a un lettore ben informato sulle vicende degli ultimi  sette decenni dell’Esagono. Man mano che si procede nello sfogliare il calendario si indica prima la bambina poi la giovinetta infine la donna e la femme âgée dell’ultimo tratto, dalla ricostruzione del dopoguerra a una dozzina di anni fa, non un solo fatto dimenticato: da Dien Bien Phu, all’Algeria, alla morte di Papa Giovanni XXIII, al genocidio del Ruanda ecc ecc con una prosa tenue, lieve, un po’ flou, un po’ pointiliste, sociologicamente, ideologicamente, intellettualmente, storicamente ben informata, un po’ senile nel suo insieme,  come di chi vede il proprio  mondo interiore e quello esterno sotto una lente sfocata o fumée e sotto il vortice di un resumé. C’è  cronaca spesso millimetrica nello sfogliare questo calendario degli anni dicevo, ma manca il “romanzo” – la trasfigurazione mitopoietica del mondo osservato – il fascio motore di immagini che colga con un unico sguardo il senso di un’esistenza e di un mondo così puntualmente rievocato.

Frantumiamo pagine su pagine, tra frasche e fiori direbbe De Sanctis, talvolta con interesse talaltra  con un filo di tedio: quante volte infatti  abbiamo letto anche altrove del clima effervescente del maggio 68, dello spirito di fusione col mondo di quei giovani, del senso di un vivere memorabile, dell’aspirazione alla purezza e al vivere in sintonia col mondo, ma anche di  quel sentimento implicito da reduci? C’è dunque  lo sguardo acuto, ipermetro direi,  dell’osservatrice, c’è  la sensibilità,  l’intelligenza, la resa del piccolo particolare significativo e illuminante colto con verve, finezza sociologica e senso del reale, ma manca l’elemento agglutinante e affabulatorio, manca il “romanzo”, e una volta chiuso il libro, latita anche quella unica  immagine memorabile  con la quale di solito  sarà ricordato un libro destinato  a vivere  nella nostra memoria di lettori.

Il continuo riferimento alla storia francese,  alla politica, ma anche eventi televisivi,  canzoni,  modi di dire, marche automobilistiche, passaverdure ecc. rende astrattamente evocativo il tessuto a maglie strette delle rammemorazioni e asfittico l’addensarsi dei ricordi.
Se questa è  l’autofiction – il rifiuto di abitare una forma-, forte è il desiderio di invocare la narrativa d’antan, quella finta e dissimulata, dove non “la” Storia ma “una” storia è narrata, e dove accade che un Julien Sorel  con volontà  di potenza prende la mano a Madame de Rênal allo scoccare della mezzanotte e un Rastignac  dall’altura del  Père Lachaise dice “E adesso a noi due” rivolto alla Parigi ai suoi piedi.

Alla fine del suo racconto-non-racconto Ernaux dà una nota esplicativa,  quasi un’interpretazione autentica della sua procedura stilistica:

«La forma del suo libro può dunque emergere soltanto da un’immersione nelle immagini della sua memoria per esporre in dettaglio i segnali specifici dell’epoca, dell’anno, più o meno certo, nel quale esse si situano – per collegarle tra loro e ad altre ancora, e sforzarsi di riascoltare le parole delle persone, i commenti sui fatti e sugli oggetti estrapolati dalla massa fluttuante dei discorsi, quel vociare che apporta senza tregua le continue formulazioni di ciò che siamo e dobbiamo essere, pensare, credere, temere, sperare».

Ma è l’oste che sta parlando del proprio vino.

 

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