Letteratura
Giuliano Taccola e il destino dell’eroe nel libro di Roberto Morassut
Vigore fisico, agilità, prontezza dei riflessi, destrezza: queste e altre le abilità degli atleti nella Grecia omerica, quando un eroe non era tale se all’eccellenza guerriera non si accompagnava l’eccellenza atletica. Campione, nei tornei medievali, era chi teneva il campo. Per i cavalieri di re Artù come per l’aristocrazia achea il prevalere sul campo di battaglia era tutt’uno con l’essere acclamati durante le giostre o, secoli prima, allo stadio.
Allora come oggi, destrezza e agilità sono qualità precipue degli atleti, il calciatore si è fatto depositario di una tradizione che lo vuole vigoroso e in piena salute.
Anche per questo – suggerisce Roberto Morassut nel suo “Numero 9. Giuliano Taccola: la punta spezzata. Roma e la Roma negli anni ’60” (Palombi Editore) – la morte di un professionista nel pieno della sua carriera sportiva è un evento che non è contemplato; anche per questo il decesso di Taccola, giocatore della Roma alla fine degli anni Sessanta, è rimasto così impresso nella memoria di quella generazione di tifosi a cui lo stesso Morassut appartiene. “Taccola sembra un eroe greco – scrive l’autore descrivendo una foto del calciatore – sorride sudato e guarda lontano, si intravede il colletto della maglia rossa“.
In diciassette capitoli (diciassette furono i gol di Taccola in serie A, ricorda l’autore, attento, come attento è il mondo del calcio, a cabala e numeri. E varrà forse la pena ricordare come il 17 – XVII in numeri romani – sia da sempre inviso alla superstizione a causa dell’infausto anagramma che trasforma quel XVII in VIXI, vissi e quindi sono morto) Roberto Morassut, con il suo consueto piglio storico e la sua sensibilità per fatti spariti dalla memoria collettiva, conduce il lettore in una ricerca di cause e responsabilità per quella morte di un giovane di 25 anni al culmine della fortuna calcistica.
Come aveva già fatto con il caso di Annarella Bracci (ne “Il pozzo delle nebbie“, Edizioni Ponte Sisto), l’autore si serve di giornali dell’epoca e testimonianze dirette per gettare luce su un caso che sotto la sua penna si trasforma mano a mano in una sorta di giallo, calato profondamente nella Roma – “sorniona e disincantata” – di quegli anni, aiutato anche da lontani ricordi personali (aveva solo pochi anni quel 16 marzo del 1969, quando Giuliano Taccola perse la vita in circostanze mai del tutto chiarite sulla panchina di uno spogliatoio sardo alla fine di una partita che non aveva neanche giocato).
A Morassut va il merito di prendere per mano il lettore, anche non appassionato di calcio, e di condurlo dritto a quel pomeriggio del ’69, allo stadio Amsicora di Cagliari prima e nella Roma di quell’epoca, subito dopo, nella squadra allenata da Helenio Herrera, il “mago”, e di proprietà di Alvaro Marchini, il “costruttore comunista”; nella capitale del compromesso del pallone e del mattone: quel patto tra imprenditoria e politica che sulle sponde del Tevere coinvolse sempre anche la sua squadra di calcio.
E se da una parte viene mostrato come la politica è entrata più volte a gamba tesa nelle vicende della Roma di quegli anni, condizionando scelte e indirizzi societari, dall’altra, la morte di Taccola può essere ascritta a tutti gli effetti a una morte sul lavoro, con una storia non dissimile da quella di milioni di lavoratori morti per servizio. È un’acuta insufficienza cardio-respiratoria, causata da un forte scompenso cardiaco, a fermare il battito del campione: la sua cardiopatia era diagnosticabile? Ci fu un nesso causale tra la morte e l’attività sportiva svolta dal giocatore negli ultimi giorni? C’è qualcuno più responsabile di altri del suo decesso? A questi e ad altri quesiti Morassut tenta di dare una risposta, per togliere un po’ di polvere da quella lapide a Uliveto Terme, suo paese d’origine, dove Taccola riposa, ormai quasi dimenticato dopo il solenne e gremitissimo funerale alla Basilica di San Paolo Fuori le Mura: destino baro per un campione che tanto aveva infiammato i suoi tifosi (“in una realtà come Roma eternamente incline ad assaporare il nettare dei “circenses” come alternativa alla durezza della vita di un popolo estatico e plebeo“). Allo storico, spesso, spetta anche il compito di fare pulizia.
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