Letteratura
Giuliano da Empoli, “Il mago del Cremlino”: che cos’è la politica?
LE LEGGI DELLA POLITICA
Il mago del Cremlino (Mondadori, 2022), romanzo con cui Giuliano da Empoli esordisce nella narrativa, è la storia di Vadim Baranov, spin doctor di Putin, figura probabilmente ispirata a Vladislav Surkov.
L’autore traccia una vera e propria anatomia del potere. Attraverso lo sguardo di Baranov, che dal terzo capitolo è di fatto la voce narrante, emergono gli ingredienti fondamentali su cui pare reggersi l’esercizio del potere da parte di Putin (ma forse non solo di Putin). La prima legge è saper “afferrare le circostanze”: lo diceva anche Machiavelli, il principe deve saper “riscontrare el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi”. Saper “afferrare le circostanze” corrisponde al principio del “comportarsi secondo l’occasione”, la norma politica precisata da Baltasar Gracián. Ebbene, proprio questo fa Putin: come un predatore sa cogliere il momento da volgere a proprio favore.
La seconda legge è la legge dei bulli, ben esemplificata dal famoso episodio del Labrador che con crudele compiacimento Putin – ricorda efficacemente Giuliano da Empoli – lascia circolare intorno a una Merkel “impietrita e sull’orlo di una crisi di nervi”, cioè in posizione di debolezza per la sua nota fobia dei cani: è “la stessa logica del cortile di scuola”, scrive l’autore, “dove i bulli impongono la loro legge”.
Tuttavia al di là di teorie politiche complesse, che mescolano il lucido calcolo all’impassibile freddezza, Baranov constata che da Ivan il Terribile in poi “la Russia si è sempre fatta così, a colpi di sciabola”: l’essenza del potere, quindi, non è affatto – come potrebbe sembrare a una prima lettura – la “razionalità machiavellica”, l’azione, cioè, anche spregiudicata, ma sempre scelta in nome della Ragion di Stato e che, dunque, non si risolve semplicisticamente in forme di crudeltà fine a se stessa; piuttosto, precisa Baranov, la politica è il teatro in cui si scatenano “l’irrazionalità, le passioni, la cattiveria gratuita”. E d’altra parte i recenti fatti in Ucraina lo dimostrano.
Giuliano da Empoli si addentra in maniera profonda nei meandri della realtà politica attraverso ricercati riferimenti culturali, a volte diretti e a tratti, invece, non proprio espliciti. Un punto di partenza sembra essere il poema ideato dal personaggio dostoevskjano Ivan Karamazov, nel quale Il Grande Inquisitore conduce una cinica analisi del concetto di potere e rivolgendosi a Cristo, gli dice: “noi abbiamo rettificato la tua opera e l’abbiamo rifondata sul miracolo, il mistero, l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati nuovamente come un gregge”. Nel Mago del Cremlino Putin interiorizza perfettamente l’amara verità che Dostoevskij riconosce nel bisogno umano di “cercare un essere dinanzi al quale inchinarsi” e perciò elabora quella che Baranov definisce teoria della verticalità: dopo aver descritto un Gorbacev che si fermava a discutere con le persone e uno Eltsin che si presentava come compagno di bevute, Vadim Baranov liquida questa orizzontalità come pericolosa prossimità alla gente da parte di chi esercita il potere. E quindi commenta così: “l’eccesso di orizzontalità ha portato al caos. I Russi nutrono un nuovo desiderio di verticalità, cioè di autorità”. E per riportare l’ordine in una Russia che rischia di somigliare alla brutta copia di un Occidente iperliberista, edonista, individualista e atomizzato, forse non bastano il bullismo di Stato, la legge del Labrador. Bisogna essere in grado, osserva Baranov, di “osservare gli altri”, le loro angosce, le loro paure. La politica non si riduce “all’amministrazione di un condominio. Ha un solo scopo: dare una risposta ai terrori dell’uomo”. E “la verticale del potere è l’unica risposta soddisfacente”.
Ebbene su queste basi Putin costruisce quella che Giuliano da Empoli definisce la “politica del profondo”, che poi diventa nei fatti una “democrazia sovrana”, espressione ossimorica che descrive una struttura politica perversa: un involucro democratico svuotato di senso che racchiude il cuore autocratico di una dittatura a sfondo nazionalistico e con mire imperialistiche.
SCENARI DISTOPICI
Abilmente Giuliano da Empoli tratteggia uno scenario da incubo, dalle sfumature perturbanti. All’inizio del romanzo è esplicito il riferimento a un classico della narrativa distopica, Noi di Evgenij Zamjatin, che descrive una società governata da una razionalità estrema, dove le persone sono identificate con codici alfanumerici e ogni cosa – dal sesso, alle conversazioni per strada, alla politica – è regolata nei minimi dettagli per garantire la massima efficienza del sistema controllato dal cosiddetto “Benefattore”: in questa realtà tutto è trasparente e non c’è bisogno di segretezza perché non c’è nulla di cui vergognarsi, niente da nascondere. Nello Stato Unico descritto da Zamjatin anche le elezioni si svolgono alla luce del giorno. Il protagonista del romanzo Noi dice: io vedo tutti votare per il Benefattore e tutti vedono me votare per il Benefattore, e chiarisce così che il sistema trasparente è in effetti una sorta di Panopticon. Zamjatin intendeva denunciare le regole della dittatura staliniana, ma di fatto ha colto, con molto anticipo sulla storia, le disfunzioni della nostra società, quella algoritmica della sovraesposizione nel web, la società in cui tutti ci sentiamo liberi di esprimerci attraverso i social senza capire che forse proprio questa pornografia dei dati che noi stessi forniamo nasconde una profonda opacità: l’altra faccia della razionalità algoritmica è infatti il controllo digitale.
Mark Fisher ha parlato di weird and eerie a proposito della società contemporanea: quella descritta da Zamjatin, quella che Baranov sta contribuendo a creare nella Russia di Putin, hanno in effetti tutti i tratti della distopia, ma uno in particolare: la normalizzazione dell’assurdo che gradualmente entra nelle abitudini. Scriveva a tale proposito Margaret Atwood nel Racconto dell’ancella: “la normalità significa ciò cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrarvi normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”.
CHI SCRIVE NON È IL SUO PERSONAGGIO
Va apprezzata l’audacia di Giuliano da Empoli che affronta temi molto attuali scegliendo al posto della saggistica un romanzo, abbandonando, quindi, la scrittura argomentativa per sperimentare la creatività narrativa. Scrivere un romanzo mobilita emozioni, in chi scrive e in chi legge, è un’esperienza coinvolgente, che però espone anche a un rischio, lo stesso in cui sono incorsi molti grandi della letteratura: il rischio cioè che il pubblico sovrapponga l’autore al personaggio da lui creato e, che, quindi, proceda per sommarie identificazioni tra le idee dell’autore con la vicenda e i pensieri del personaggio. Nel caso di Giuliano da Empoli l’accusa di putinismo (oggi così frequente nei confronti di chi voglia affrontare in modo problematico le questioni relative alla crisi russo-ucraina) sembrerebbe una possibilità per chi si accontenta di letture superficiali. Naturalmente – per fare un esempio – noi sappiamo benissimo che Nabokov non è Humbert Humbert e non si identifica certo con la sua smania di possesso per Lolita. E infatti proprio Nabokov ha precisato nella postfazione al suo romanzo che è infantile studiare un’opera di narrativa per trarne informazioni sull’autore”. Un romanzo, insomma, è un romanzo e come tale va letto. E questo vale anche per Il mago del Cremlino.
L’AMORE COME ANTIDOTO
Forse come tributo alla natura romanzesca della vicenda raccontata, nel Mago del Cremlino c’è spazio anche per i sentimenti umani. Alla politica come dimensione oscura, fatta di trame, inganni, violenze, Giuliano da Empoli oppone l’amore. Quello tra Vadim Baranov e Ksenia è un rapporto che attraversa incomprensioni e tradimenti, ma che pure si trasforma in un incontro, rigenerato e reso più maturo dal fatto di aver resistito a molte difficoltà. In un mondo che intorno sembra crollare, si fa strada in Baranov, il Rasputin di Putin, una nuova, profonda esigenza che è all’origine della sua metamorfosi: “ciò che volevo, adesso, era tornare indietro, ristabilire un rapporto con tutto ciò che avevo trovato di bello nel mondo”.
Alla solitudine del potere, alla solitudine di Putin – un uomo senza moglie, senza figli, senza amici – si contrappone la decisione di Vadim Baranov: “è venuto il momento di smettere di voler ricoprire il mondo, ma piuttosto di sceglierne un frammento. E di farlo vivere”.
Si tratta di parole che ricordano il Calvino delle Città invisibili, quando scrive che bisogna cercare ciò che non è inferno e farlo durare, dargli spazio.
L’amore tra Baranov e Ksenia rappresenta l’inaspettata svolta sentimentale di un romanzo sul cinismo del potere: una scelta precisa, un messaggio rivolto forse alle nuove generazioni che ormai sembrano fagocitate solo da prospettive fosche. L’amore, gli affetti possono definirsi, per usare le parole di Baranov, come “un antidoto negli eventi caotici” dell’esistenza individuale e collettiva, un antidoto necessario, diceva Winston in 1984, a preservare la nostra sostanza umana, quella che Clarisse fa scoprire a Montag in Fahrenheit 451 e che Baranov ritrova grazie a ciò che costruisce con Ksenia. Anche nella realtà più distopica resta un varco aperto alla speranza.
Resta però un fatto: solo il ripiegamento nel privato garantisce la riconquista di sé.
Giuliano da Empoli scrive un romanzo che quanto più esamina le strategie del potere tanto più sembra negare il senso della politica – almeno di quella che il nostro tempo conosce – come realizzazione piena della vita umana e dell’uomo come πολιτικóν ζῷον.
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