Letteratura
Gezzi e Temporelli, poesia, linguaggio e spirito del tempo
Sebbene periodicamente poeti e critici provino a farlo, non è facile indicare in che direzione si orientino le scritture poetiche mentre le cose sono in fieri, in corso d’opera, senza un’ottica retrospettiva, senza osservare dopo un po’ di tempo uno scenario più definito, o almeno dei percorsi più consolidati. È certo, però, che anche questa forma letteraria così antica e stratificata, e quindi naturalmente, inevitabilmente, in relazione con gli echi di una pratica e di una tradizione millenaria, lungo le epoche e le generazioni muti, si modifichi, evolva. I modi per porsi in relazione con la contemporaneità sono molti: tra questi ci sono quello di restituire o intuire qualcosa dello spirito del tempo e quello di cercare una nuova sintonia del linguaggio, delle parole, anche qui consapevoli della cronologia e delle sue implicazioni.
Sembra accadere qualcosa di simile in due poesie, rispettivamente di Andrea Temporelli e di Massimo Gezzi, contenute nei libri L’amore e tutto il resto (Interlinea, 2023) e Sempre mondo (Marcos y Marcos, 2022).
Questa poesia di Temporelli, dal contesto sfumato, o appena accennato, senza un prima, un dopo o un perchè utili a precisare la situazione, mostra un soggetto che pare vivere in una terra di mezzo dell’esperienza e le cui azioni sono definite in negativo, come se fossero depurate da intenzioni inutili o fuori luogo. Che il tono del discorso sia ironico, lievemente sarcastico o segnato da un’accettazione delle cose, da un distacco liberatorio, tra i diversi significati possibili, ci può essere anche quello di descrivere una persona o, in forma allegorica, una generazione, una porzione di umanità, a cui fanno difetto le certezze, i punti fermi, e che forse in questa condizione può trovare un’occasione di libertà, o almeno di desaturazione, di relazione con il cambiamento, con una metamorfosi della realtà e dell’identità.
Errata corrige
Ma no, non c’è risentimento
nell’affanno di chiavi sulla soglia
nel guardar di scancìo la strada
nel liberar la mensola
da pacchi e lettere intatti da mesi.
Ciascuno ha preso posto
per la prima mondiale:
io assisto allo spettacolo da qui,
semplicemente.
La fronte china a terra
non è dunque rimprovero miopia o umiltà d’accatto,
solo un inchino al prato:
se la pioggia ha cessato
la sua retorica battente
adesso è bello uscire, nonostante
una bisbetica bava di vento.
Da sola si bonifica
la terra vilipesa. Se io pure
procedo tutti i giorni a questi campi
è appena per vedere:
non attendo nessuno
non ho nulla da dire
piuttosto prendo appunti
su questa pasta d’alberi. Ma scrivo
impugnando uno stelo di nipitella e quindi
non troverete segni. Lo capisco.
Mi correggo da solo.
In questa poesia Gezzi propone un dialogo tra un padre e una figlia, ancora bambina ma già curiosa dell’universo dei grandi, sulla questione della ricchezza e della povertà materiale. Lo stile della poesia è esplicitamente colloquiale, mima le forme di una conversazione, sia pure all’interno di una versificazione dall’andamento narrativo. Il tema che attraversa il testo è la verità, quasi sempre più difficile di quanto si pensi da dire e da definire, nonché non di rado multiforme e sfuggente. E, ancora, oltre a indagare il valore e i rischi della sincerità, questa poesia sembra suggerire l’ipotesi che, date due mappe del mondo diverse, considerati due punti di vista differenti, le verità potrebbero essere due, e non una sola.
Altre domande
“Siamo poveri?”, mi chiede.
“No, non lo siamo”.
“Allora siamo ricchi”, ribatte.
“Nemmeno”, cerco di dirle senza sembrare
ridicolo a me stesso o a tutti quelli
che non mi ascoltano. “Ma perché
ci sono i poveri?”. Brava, penso.
E adesso prova a dirle
qualcosa di sensato: sforzati, balbetta.
“Perché qualcuno vuole avere
più denaro di quanto gliene serva
per vivere, star bene”.
“Noi no, non è vero?”. “Noi no”, la rassicuro.
Ma ho mentito, ho barato e forse un giorno
non mi perdonerà.
In copertina: Muro di Berlino, 16 novembre del 1989. Foto di Yann (talk).
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