Letteratura
George Orwell e “the nice cup of tea”
Quando Carl Schmitt scrisse il suo saggio Terra e mare (1942) il confronto tra le due potenze europee, l’Inghilterra che s’era indirizzata fin dai tempi di Elisabetta I alla via del mare e la Germania che s’era insediata egemonicamente sul continente europeo, sembrava aver raggiunto l’ultimo “combat” di una centenaria storia in cui la potenza tellurica era stata rappresentata ora dalla Spagna (andata a sbattere proprio sulle coste inglesi con la sua Invencible Armada), ora dalla Francia e in ultimo dalla Prussia e dalla Germania unificata, mentre la potenza marinara era rimasta sempre l’Inghilterra, nazione autotalassica, determinata dal mare, per eccellenza.
Gli inglesi, appartati nella loro isola flagellata dal maltempo e in possesso di una lingua articolata da paroline brevi come degli squittii di uccello (tweet), se avevano un occhio puntato (non perso né sognante, ma sempre “pratico”) sugli equorei e oceanici orizzonti, dirigevano sempre l’altro, vigile e insonne, sulle cose continentali. Anche quel tratto di mare che li separa dall’Europa, e che loro chiamano channel, è stato ristretto o allargato a loro piacimento. Splendido isolamento ma anche vigilanza occhiuta sulle sorti del Continente, nel perseguimento della politica di “equilibrio”, il loro beninteso: impedire in ogni modo che si formasse una potenza continentale. Dalle guerre di Successione spagnola (1701-1711), in cui il pericolo, ricordiamo, era costituito dalla Francia che ereditava la corona borbonica spagnola, fino a Napoleone, a Hitler, ecc. è stato sempre così. Sotto questo segno si è collocata anche questa guerra combattuta “con altri mezzi” che è il mercato unico europeo, verso il quale non hanno mai saputo decidersi, neanche con questo referendum pare – il loro singolare e amletico to be or no to be che li vede, sia detto con inglese maccheronico, “lost in votation”- e che forse segna un punto di non ritorno o forse anche no.
C’è uno spagnolo, un tedesco, un inglese, un italiano …
È vero che tutto il mondo è paese, ma talora un Paese è tutto un mondo. Che talora «un Paese è tutto un mondo», ossia che esibisca quelle specificità che lo rendono subito riconoscibile tra tanti, è qualcosa che anche in Italia è cognizione comune quando si usa la locuzione «all’ italiana». Con quest’altro modo di dire infatti ci ritagliamo, e spesso sotto l’effetto di un paragone ellittico e squalificante con le altre nazioni, la nostra identità tra di esse, intuiamo così che il nostro Paese è tutto un mondo. Sovente e senza imbarazzo ci abbandoniamo a tale locuzione, sembrando così interiorizzare una cognizione antropologica di noi stessi che diamo ormai per scontata e irredimibile. Diciamo «all’italiana» ogni qualvolta intendiamo designare, quasi per convenzione e semplificazione linguistica, quel modo di operare, spesso relativo all’ organizzazione dei bisogni e delle necessità collettivi, di cui non si è riusciti a ricostruire con nitidezza tutti i confusi percorsi logici, ma che si distingue invece, e nettamente, per quel misto di improvvisazione, disorganizzazione, provvisorietà, disordine e pressappochismo (parola tipicamente italiana!).
Scriveva a tal proposito Luigi Barzini in quel saggio su Gli Italiani (1964) che non finisce di stupire per capacità di penetrazione e lucidità di analisi:
La più gran parte di ciò che avviene da noi non è necessariamente ‘all’ italiana’. Tuttavia le cose ‘all’italiana’ non devono essere prese alla leggera. Sono indizi preziosi.(…) mostrano che ancora oggi come nel passato certe imprese ci riescono senza sforzo e che altre sono per noi praticamente impossibili; hanno chiaramente determinato l’andamento degli eventi trascorsi; senza alcun dubbio, determineranno il nostro avvenire. Forse per noi non c’è scampo. Ed è questa sensazione di essere in trappola entro i limiti inflessibili delle tendenze nazionali a far si che la vita italiana, sotto la sua superficie scintillante e vivace, abbia una qualità fondamentale di amarezza, disappunto, e infinita malinconia.
Ieri l’altro in Spagna si è dovuto ricorrere a delle nuove elezioni che hanno ribadito i risultati delle precedenti; probabilmente i due partiti maggiori dovranno ricorrere a ciò che hanno evitato in prima battuta, ossia la “grande coalizione”. Il “Corriere” di qualche giorno fa scriveva che tale “union sacrée” per garantire la governabilità del Paese (un fatto del tutto scontato in Germania, dove il concetto di Germania sta sopra le parti e i partiti) “non è nella cultura politica della Spagna”. In Spagna hanno il brutto vizio di fare gli spagnoleschi come nel romanzo Gil Blas del francese Lesage o la Carmen degli altri due francesi Mérimée e Bizet, a comprova che spesso i caratteri nazionali vengono colti dagli altri europei prima o più che che dagli stretti interessati.
Orwell e il carattere nazionale inglese
Dal ‘700 in poi (da Montesquieu e Voltaire) sì è diffusa nella pubblicistica francese, e da lì anche in Italia – il primo a parlarne fu Giacomo Leopardi-, la nozione di “carattere nazionale”. Ma si useranno anche altre formule, tipo génie, grain, come farà l’americano Dwight Macdonald che contro l’american grain scaglierà un affilato e sfottente libro; in ultimo si adotterà il neutro e sociologico identità: l’identità tedesca, francese, italiana,ecc., al fine di non scadere in facili psicologismi o nelle trivialities come temeva Orwell, il quale proprio in The Lion and the Unicorn affronterà le caratteristiche nazionali del proprio Paese mettendo nel sottotitolo il richiamo all’english genius.
«Alcune cose possono accadere in un paese e non accadere in un altro» ricordava Orwell nel suo saggio sul “genio” inglese, per il quale finanche «il fatto che l’Inglese ha cattivi denti potrebbe dirci qualcosa circa la realtà della vita Inglese”, in ciò conformandosi al pensiero di Hegel che nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio asseriva: «Spesso, le singolarità di un piccolo avvenimento, di una parola, esprimono, non già una particolarità soggettiva, ma un tempo, un popolo (corsivo mio), una civiltà in modo conciso e vivacemente intuitivo».
In The Lion and the Unicorn (1941) George Orwell riassume perciò la peculiarità della Englishness (che non so quanto coincida con la Britishness ) o meglio dire enuclea, con il suo inconfondibile acume, i tratti caratteriali di questo popolo dalle facce irregolari e bitorzolute (knobby faces). Evidenziava Orwell in esordio l’assenza presso gli inglesi di estro artistico: non hanno propensione per la musica gli inglesi (ma non aveva ancora visto i Beatles e i Rolling stones, e forse non amava Purcell) come gli italiani o i tedeschi, o per la pittura come i francesi. Hanno orrore del pensiero astratto, e non sono dominati da nessuna “visione del mondo”. Nessun “sistema” filosofico, aggiungo io, può catturare delle menti come quelle inglesi profondamente radicate nell’empiria. Non hanno assiomi, non deducono il mondo dalle idee, seppur chiare e distinte, come i cartesiani francesi, né per formule triadiche dal Geist più o meno assoluto come i filosofi tedeschi usciti dagli Stift luterani, ma inducono il mondo delle idee dall’osservazione empirica del reale sotto sforzo di scetticismo e fino a prova contraria dell’evidenza, o, secondo le leggi associative dell’abitudine come avvertiva Hume: tutto ciò che ha le sembianze di un elefante e puzza di elefante per loro probabilmente è un elefante.
Orwell annota amorevolmente per questo suo Paese dove la «birra è più amara, le monetine più pesanti, il verde più verde e la pubblicità più invasiva» anche piccoli tratti minori che girano attorno a quelle “piccole cose di pessimo gusto” cui era affezionato il nostro Gozzano, e non solo lui, e dove si estrinseca il culto tutto inglese per la privateness (quella che noi chiamiamo privacy!) English characteristic è l’amore per i fiori, la collezione di francobolli, il retro giardino, la passione per i piccioni, per il gioco delle freccette e per i piccoli lavori di carpenteria, il caminetto, e ovviamente the «nice cup of tea» (su cui stilerà un celebre decalogo), abitudini e stili di vita dove si rinserra la privatezza e si estrinseca la libertà dell’individuo.
Stendhal che non li amava troppo gli inglesi ma che aveva avuto il coraggio letterario, con scelte di lesa maestà francese, di anteporre il genio di Shakespeare a quello di Racine e che aveva dedicato shakespearianamente il suo romanzo, La Certosa di Parma, to the happy few, annotava in Roma, Napoli e Firenze (1821) a proposito della privateness inglese: «sono convinto che un inglese, Pari e milionario, non osi accavallare le gambe quando è solo davanti al suo caminetto, de peur d’être vulgaire»! aggiungendo più avanti «non un inglese su cento osa essere se stesso; non un italiano su dieci si concepisce altro da ciò che è. L’inglese si emoziona una volta al mese, e l’italiano tre volte al giorno».
L’insularità inglese
Ma nei momenti di snodo della sua esistenza il popolo inglese si compatta e sa resistere come nessun altro popolo al mondo come seppe resistere con straordinaria mobilitazione di vecchiette e di “vergini britanne” sotto i bombardamenti tedeschi, che peraltro restituirono con altrettanta ferocia.
Annota Orwell sui propri connazionali:
Essi hanno una certa capacità di agire senza pensarci sopra più di tanto. La loro ipocrisia famosa in tutto il mondo – il loro atteggiamento a doppia faccia verso l’Impero, per esempio – è legata a ciò. Inoltre, nei momenti di crisi suprema l’intera nazione può improvvisamente compattarsi e agire d’istinto, in realtà seguendo un codice di condotta, che è compreso da quasi tutti, anche se non formulato. La frase che Hitler ha coniato per i tedeschi “un popolo di sonnambuli”, sarebbe stata meglio applicata agli inglesi.
Fra i piccoli tratti di questi sonnambuli a tutti noti c’è l’attitudine alle scommesse. Tratto che probabilmente nasce – come i Lloyd di Londra che fondano la moderna attività delle Assicurazioni e delle Riassicurazioni proprio sui calcoli probabilistici dei carichi marini a rischio di andare dispersi nelle tempeste o di raggiungere i porti -, dalle incertezze della vita di mare. Proverbiale la loro ostinazione per l’azzardo. Scommettono su tutto finanche sulle gocce d’acqua che scorrono sui vetri. Avranno dato le loro “quote” anche in quest’ennesimo azzardo del referendum che li potrebbe salvare o sconfiggere definitivamente oppure consegnarli al ridicolo del to be or no to be perenne.
Ma Orwell avvertiva con lucidità e con una certa punta di orgoglio isolazionista (non sapremo mai però come avrebbe votato nel referendum sulla Brexit):
L’insularità degli inglesi, il loro rifiuto a prendere gli stranieri sul serio, è una follia che occorre pagare a caro prezzo di tanto in tanto. Ma gioca la sua parte nella mistica inglese, e gli intellettuali che hanno tentato di combatterla in genere hanno fatto più male che bene. In fondo è la stessa qualità nel carattere inglese che respinge il turista e tiene fuori l’invasore.
Che Dio salvi oltre la regina anche gli inglesi (e noi con loro) da questa ennesima scommessa.
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