Letteratura

Generazioni al femminile: “Dovrei proteggerti da tutto questo”

10 Ottobre 2017

Mina, Josée, Fraçoise, Nadja: quattro generazioni di donne per un racconto a più voci e una sola narratrice, Nadja Spiegelman. Figlia del noto autore di Maus, Art Spiegelman – che non compare, se non marginalmente in questo memoir – Nadja racconta la storia tutta al femminile della sua famiglia, una saga che, a differenza dell’opera paterna, solo parzialmente s’intreccia con le vicende storiche entro le quali si svolge. Tutto infatti nasce da una ricerca identitaria, quella di una giovane donna che vuole comprendere meglio sé stessa attraverso le sue radici: il rapporto con una madre, Françoise, molto ammirata, ma con la quale risulta difficile il confronto (più ancora che con la figura paterna, già in sé piuttosto ingombrante), le ragioni profonde del suo modo di essere donna e madre, maturate nella relazione con Josée, nonna che Nadja riscoprirà proprio attraverso la ricerca per il suo memoir, per chiudere – anche se di chiusura non si può parlare in un romanzo che lascia aperte infinite finestre sul passato – con Mina, madre di Josée.

I piani si compongono e scompongono con l’avanzare del racconto, intrecciando i ricordi di Françoise con il presente di Nadja e la fatica del suo lavoro di ricerca, che procede quasi di pari passo con la fatica provata dalla madre nel recuperare alcuni eventi lontani e nel rielaborarli. Con la comparsa del punto di vista di Josée la trama si complica, perché il ricordo non è mai univoco: esistono infinite versioni di una stessa storia e la ricerca di “verità” da parte dell’autrice – finalizzata al racconto, ma anche e soprattutto alla ricomposizione di dissidi e incomprensioni familiari – si rivela illusoria. Il venir meno delle certezze però non sminuisce il percorso e soprattutto non altera il senso del racconto, che si trova nella ricerca stessa, nell’analisi attenta delle complessità e delle sfaccettature dei rapporti affettivi di questo microcosmo familiare nel quale ciascun lettore si può, almeno in parte, riconoscere. Il titolo offre poi una possibile interessante semantizzazione al testo: ciascuna delle protagoniste dovrebbe – o vorrebbe – aver protetto qualcuno (la figlia, la madre, la nipote) da una realtà difficile. Anche a costo di rielaborare questa realtà nel ricordo – rispetto al quale non abbiamo mai alcuna certezza – per poter così trovare un senso a un percorso esistenziale senza che questo suoni mai come autoassolutorio. Non c’è autoassoluzione nel tentativo di Josée di ristabilire la “vera” memoria delle vicende di Mina durante la Seconda guerra mondiale, non c’è autoassoluzione da parte di Françoise quando non riconosce (o riconosce) il supporto del marito nel suo percorso di crescita. La realtà, per le protagoniste, è esattamente quella che ricordano raccontando e al lettore, così come all’autrice, non è dato sapere quanto di vero ci sia in ciascun ricordo. Non è un caso quindi che la frase che da il titolo all’opera venga pronunciata, durante la narrazione, in risposta a un “non evento”, a qualcosa che non è realmente avvenuto, ma che non cessa per questo di esercitare in modo concreto, a livello emotivo, la sua influenza.

Proprio da questo forse chi ama, chi ha cura, vorrebbe poter proteggere: non tanto dalla realtà, quanto dagli effetti che questa realtà, diretta o indiretta, di grande o piccola portata storica, ha sul nostro animo.

Questo memoir, nel quale è impossibile non trovare una pesante traccia delle grandi saghe familiari di Isabel Allende, con una patina di realismo magico che permea proprio i ricordi più “univoci” del racconto, si basa su un bisogno di recupero e riscoperta della propria storia individuale che travalica il semplice biografismo e non funge da pretesto per un racconto storico, d’impegno o di testimonianza. Come in altri romanzi di questi ultimi anni, come ne La vita sessuale dei nostri antenati di Bianca Pitzorno o ne La più amata di Teresa Ciabatti, la Storia con la s maiuscola e quella con la s minuscola, quella dei piccoli fatti, degli accadimenti personali o familiari, finiscono col ricoprire lo stesso ruolo “gregario”: quello che realmente ha importanza è ciò che avviene nell’animo e nella mente dei protagonisti, senza tuttavia che questo implichi di necessità un ripiegamento intimista.

Non amo mettere in relazione l’opera di padri e figli, ma in questo caso farò un’eccezione, proprio perché Nadia Spiegelman ha ampiamente dimostrato di non essere figlia d’arte. Se con Maus infatti Art ha cercato di elaborare e rendere “tangibile” per il lettore, che mai ha vissuto nulla di simile, il dramma della Shoa, con questo memoir Nadja ha reso visibile l’invisibile rete di rimandi che nei ricordi familiari compongono, come strati di sedimentazione, la nostra identità individuale. Coltivare la consapevolezza di questi legami è forse, a fine lettura, il messaggio, il testimone che ci passa questo romanzo.

N. Spiegelman, Dovrei proteggerti da tutto questo, Edizioni Clichy, 2017.

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