Letteratura

Il Gattopardo, sessant’anni e non dimostrarli

26 Ottobre 2018

Il Gattopardo compie 60 anni. E’ uscito in libreria il 28  ottobre 1958. Propongo di fare un esercizio.

Di quel testo, ma soprattutto del film che poi Luchino Visconti trasse da quel testo e che spesso si è sovrapposto al libro fino ad offuscarlo, o a trasformarlo in un texte à l’appui, si è spesso parlato fino a trasformarlo nel codice dela vita italiana, si potrebbe dire. Alla base di quel testo non sta, infatti il Risorgimento, sta il processo di trasformazione, sta l’adattamento al potere vincente in cui entusiasmo e disincanto, scetticismo continuità del potere si incontrano.

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”,  è forse la frase più nota del romanzo. La pronuncia Tancredi, il nipote di don Fabrizio quando comunica allo zio la sua decisione di arruolarsi con i garibaldini sbarcati a Marsala. Siamo alle prime pagine del romanzo, tutto deve ancora avvenire.

Una frase che per certi aspetti inganna. Chiediamoci: perché in un romanzo dove conta ciò che si fa, non ciò che si dice, perché proprio ciò che si dice dovrebbe segnare il discrimine?

Non è la frase che molti hanno assunto a manifesto stesso del Il gattopardo a segnare la differenza tra prima e dopo. E non lo è nemmeno il disincanto o lo scetticismo di Don Fabrizio che vede la crisi del potere dei Borboni, non si entusiasma né parteggia per il nuovo potere, pur adattandovisi.

Il protagonista è invece un ceto che in parte servo o funzionario del precedente, e in parte estraneo al precedente, presenta la propria candidatura a essere la nuova classe di governo. Per farlo tuttavia non basta che si candidi, deve sancire il nuovo potere in forza di un rito pubblico. Quel rito pubblico è il plebiscito. La scena è collocata poco prima della metà del libro, a metà della«Terza parte» ed è quella in cui si danno i risultati del voto. La riporto:

“Dopo il seggio elettorale venne chiuso,  gli scrutatori si posero all’opera ed a notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati: Iscritti 515; votanti 512; «sì» 512, «no» zero. Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed evviva; dal balconcino di casa sua Angelica, insieme alla cameriera funerea, batteva le belle mani rapaci; vennero pronunziati discorsi: aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzarono e si urtarono nel buio da una parte all’altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre”.

Il nuovo potere è il consenso della nuova maggioranza, che avviene nella modalità stessa del voto. Un voto che ha spesso un carattere corale, conseguenza tanto della concezione monista del suffragio universale, quanto delle direttive che hanno lo scopo di promuovere una partecipazione ampia e univoca e ordinata, presentandosi, o aspirando a essere «votazione universale».

La mobilitazione elettorale avviene per «corpi» nelle zone rurali; in città da parte delle congregazioni di arti e mestieri.

Il corteo elettorale, al quale si aggregano spesso anche gli esclusi dal voto (donne, minori, ecc.), è uno dei principali motori in cui si articola la festa della nazionalità.

Del resto, nella partecipazione attiva al voto, si mescolano militari e civili, giovani e vecchi, borghesi e popolani, che in molti contesti partecipano in modo extralegale alle votazioni.

Il plebiscito è, ancora prima del risultato, nel suo scenario teatrale, la costruzione della nazione.

Lo stesso si può dire delle serate elettorali. Scandite spesso dal rito del trasporto notturno delle urne scortato dalle guardie civiche verso i luoghi che le custodiranno fino la mattina dopo, sono accompagnate da scoppi di mortaretti, lancio di palloni, in breve dallo scenario del voto già avvenuto, prima ancora che avvenga.

Il processo plebiscitario ha il suo momento massimo nell’atto della proclamazione.

Ma non è previsto risultato diverso. Se ci fosse, molti sarebbero convinti di un complotto.

Fine dell’esercizio.

Ora torniamo, qui, 158 anni da quel 21 ottobre 1860, e 60 anni da quel 28 ottobre 1958.

Domanda: quanta strada abbiamo percorso da allora?

 

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