Letteratura
Gained in translation
Tutti sanno cosa significa tradurre: c’è un romanzo, mettiamo di uno scrittore americano o indiano, da una parte, un editore italiano dall’altra, e in mezzo ci sono io. Tra qualche mese consegnerò all’editore lo stesso romanzo, identico nei minimi dettagli, tranne la copertina.
E tranne che devo cambiare tutte le parole che ci sono dentro.
Sulla traduzione i cliché si sprecano: la poesia che si perde, l’impossibilità del tradurre, la voce… Anche: la vita agra del traduttore. Vi prego caporedattori, basta articoli sulla traduzione con quel titolo. Vero, si guadagna poco (a proposito, lo sapete che alcuni editori indipendenti e cool NON pagano scrittori, traduttori, e agenti? Ecco, prima di sparare a zero sui colossi dell’editoria e osannare i giovani indipendenti… più avanti magari ne accennerò). Poi, non è che a lavorare come l’ufficio diritti si guadagna di più, o a insegnare, ecc.
Esistono traduttori felici, ne conosco parecchi.
Sull’invisibilità: se avessi voluto un mestiere visibile facevo l’attrice. Se poi il giornalista non cita il traduttore va contro la legge. A me basta sapere di aver fatto un buon lavoro.
Il cliché che sopporto meno è cosa si perde in traduzione, il famigerato Lost in Translation. In questi ultimi anni sono stata invitata almeno a tre convegni con questo titolo.
Invece io vorrei parlare di cosa si guadagna con la traduzione. Non in termini economici, ovvio. Diciamo di come la traduzione arricchisce la letteratura e i lettori. E lo spirito e il cervello e gli occhi del traduttore.
Insomma, Gained in translation aka #translatingissexy.
One Art
The art of losing isn’t hard to master; so many things seem filled with the intent to be lost that their loss is no disaster.
Lose something every day. Accept the fluster of lost door keys, the hour badly spent. The art of losing isn’t hard to master.
Then practice losing farther, losing faster: places, and names, and where it was you meant to travel. None of these will bring disaster.
I lost my mother’s watch. And look! my last, or next-to-last, of three loved houses went. The art of losing isn’t hard to master.
I lost two cities, lovely ones. And, vaster, some realms I owned, two rivers, a continent. I miss them, but it wasn’t a disaster.
—Even losing you (the joking voice, a gesture I love) I shan’t have lied. It’s evident the art of losing’s not too hard to master though it may look like (Write it!) like disaster.
Elizabeth Bishop
L’arte è sempre quella
L’arte di perdere s’impara presto tutte le cose col segreto intento di andare perse, che non è un disastro.
Perdi una cosa al giorno. Con malestro accetta chiavi perse, un’ora la vento. L’arte di perdere s’impara presto.
Perdi di più, più in fretta; al peggio apprestati: luoghi e nomi e dov’è che avevi in mente di recarti. Non sarà mai un disastro.
L’orologio di mamma ho perso; e questa! che è l’ultima di tre case nel niente. L’arte di perdere s’impara presto.
Ho perso due città, belle. E, più vasti, altri regni, due fiumi, un continente. Mi mancano, ma non è poi un disastro.
Anche perdere te (la voce, il gesto amato) non mi smentirà. È evidente: l’arte di perdere fin troppo presto s’impara, e sembra (scrivilo!) un disastro.
Miracolo a colazione di Elizabeth Bishop, Adelphi, Milano 2005
Traduzione di Damiano Abeni, Riccardo Duranti e Ottavio Fatica.
Devi fare login per commentare
Accedi