Letteratura
“Fuga verso la croce”: Francesco Spoto, martire siciliano nel cuore dell’Africa
Il martirio, in senso cristiano, è “soltanto” e “semplicemente” il culmine di un’esistenza credente vissuta come testimonianza del Vangelo. Talvolta è questione di un momento. Sopraggiunge all’improvviso: se non del tutto inaspettato, certamente non masochisticamente voluto, non eroicamente cercato, anzi spesso patito nonostante i tentativi e persino gli sforzi per evitarlo. Fu già questo, per esempio, stando alla “Vita” scritta dal diacono Ponzio, il caso del vescovo Cipriano, giustiziato nel 258 d.C., dopo che era però riuscito a scampare, rifugiandosi nelle campagne attorno a Cartagine, alla tremenda persecuzione scatenata nel 250 contro i cristiani d’Africa dall’imperatore Decio. Non s’era trattato di vigliaccheria, come pur avrebbe sospettato dal canto suo Tertulliano, che qualche decennio prima aveva scritto parole di fuoco contro chi gli dava l’impressione di voler evitare la suprema testimonianza per Cristo. S’era trattato, piuttosto, di realismo pastorale, finalizzato a non lasciar disperdere il gregge ecclesiale privandolo, in quella drammatica congiuntura, di una guida sicura. Molti secoli dopo, da storico lucido e acuto qual era, diede prova d’averlo ben compreso John Henry Newman, che proprio alla vicenda di Cipriano si ispirò in “Callista”, romanzo dedicato al martirio di una giovane artista, educata alla più raffinata paideia tardo-ellenistica ma convertitasi al cristianesimo, e ambientato in un antico nord-Africa descritto sulla scorta delle osservazioni paesaggistiche ed etno-culturali registrate durante il viaggio fatto dal grande intellettuale inglese in Sicilia nel 1833. Non è un caso che le pagine di Newman appaiano al lettore d’oggi molto meno retoriche di quelle di Henryk Sienkiewicz, il quale, comunque, col suo “Quo vadis?”, ispirato al martirio dell’apostolo Pietro nella Roma incendiata da Nerone, si guadagnò il nobel nel 1905.
In realtà, tra Pietro che rientra in città pur con la consapevolezza di mettersi così in pericolo mortale e Cipriano che fugge in campagna per non interrompere il suo rischioso ministero, ci sono più somiglianze che contraddizioni. Il fatto è che il martirio cristiano è resa non meno che resistenza: vale a dire consegna di sé a Dio, per il bene delle sorelle e dei fratelli più deboli e più esposti all’ingiustizia, anche a costo di cadere per questo nelle mani di nemici contro cui s’è scelto di combattere sì, ma senza violenza, con le armi della ragionevolezza oltre che della fede, della denuncia argomentata, dell’annuncio profetico, del dialogo fiducioso. È sempre stato così. È così ancor oggi. Per averne una significativa riprova, si ricordi la testimonianza del beato Oscar Arnulfo Romero, vescovo ucciso trentacinque anni fa a San Salvador da un commando di miliziani, mentre stava celebrando la messa. E si pensi al martirio del beato Pino Puglisi, ucciso a Palermo da due mafiosi, la sera del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 15 settembre 1993. Pure in questi casi il martirio è questione di un attimo, anche se quest’ultimo attimo è coerentissimo a tutta un’esistenza credente trascorsa a ragionare, ad argomentare, ad annunciare, a dialogare. Non si può dire che Romero e Puglisi siano andati con sacro furore incontro a quella loro morte violenta. Eppure Romero, che è rimasto a fare da bersaglio facile con le braccia allargate davanti all’altare, e Puglisi, sorridente di fronte ai suoi assassini mentre sussurrava che li stava aspettando, quella loro morte violenta non l’hanno considerata come una disgrazia. Non se la sono cercata, non l’hanno evitata. L’hanno, però, sperimentata appieno, con tutto il loro coraggio mite, tanto gigantesco quanto più paragonato alla viltà dei sicari, capaci di agire solo orchestrando l’agguato, facendo leva sul fattore sorpresa, proteggendosi nel branco, dissimulando sino all’ultimo le loro reali intenzioni.
Se si legge “Fuga verso la Croce” di Salvatore Falzone, a cominciare dal titolo, velatamente ossimorico, si ha un’argomentata conferma di ciò. Il libro, infatti, racconta il martirio di Francesco Spoto, giovane prete siciliano, nato a Raffadali nel 1924, morto fra atroci sofferenze nel 1964, a seguito delle percosse ricevute dai guerriglieri Simba in Congo, nella foresta di Biringi, dov’egli si trovava per visitare gli avamposti di carità tenuti dai Missionari Servi dei Poveri, mentre tutt’attorno imperversava la guerra civile. Era partito da Palermo per andare ad aiutare i confratelli impegnati nella missione congolese e per portare solidarietà alla gente dei villaggi messi a ferro e fuoco dalle milizie allo sbando. Da poco era morto Patrice Lumumba, primo ministro del Congo indipendente, caduto vittima del colpo di Sato del colonnello Mobuto, che difatti gettò il Paese nel caos delle faide tribali. In questo contesto padre Spoto fu invitato più volte dai suoi collaboratori a ripartire per l’Italia. Ma egli rimase per continuare ad animare la comunità cristiana. Fu catturato e bastonato violentemente. I suoi amici riuscirono a prenderlo in custodia e a fuggire attraverso la boscaglia, mentre i soldati li inseguivano. La morte ghermì il missionario ferito durante questa fuga. Così, nella congregazione fondata – un po’ oltre metà Ottocento – dal beato Giacomo Cusmano, di cui da qualche anno era divenuto superiore generale, Spoto fu il primo a indossare la «camicetta rossa» del martirio, motivo per cui è stato beatificato da Benedetto XVI il 21 aprile 2007.
Nel libro, appena edito da San Paolo, c’è il racconto della sua vita. E dell’esito martiriale della sua esistenza credente. Non si tratta di una biografia in senso classico, ma neppure di un romanzo. Se dovessimo ricondurre questa “vita narrata” di Francesco Spoto a qualche archetipo letterario, potremmo pensare agli atti dei martiri dei primi secoli, redatti in epoca patristica con una freschezza antiretorica che li fa apprezzare ancora ai lettori di oggi. Falzone, che ha già pubblicato le biografie di fascinose personalità spirituali, come la beata Pina Suriana e come suor Vincenzina Cusmano, stavolta si esercita nell’intento di trasfigurare gli scarsi e scarni dati archivististici di cui disponiamo in una sorta di dramma, nel cui dinamismo narrativo il lettore finisce per lasciarsi coinvolgere, raggiungendone – in punta di piedi, a fianco dell’autore – il protagonista e i suoi compagni d’avventura. Il risultato consiste nella ricostruzione, avvincente non meno che attendibile, di uno straordinario viaggio missionario, in cui nessuna informazione documentata e documentabile viene tralasciata e in cui ogni benché minimo indizio storico sicuro viene valorizzato al massimo, divenendo il bandolo di una matassa che più si srotola più s’intesse in una trama compiuta e si ricompone in un arazzo di bella fattura, da cui emerge a tutto tondo la statura umana e spirituale di padre Francesco Spoto.
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