Letteratura
Fratello preparami un eufemismo. Un che? Un Cubalibre! (Luis Sepulveda)
Ci lascia a 70 anni, per coronavirus, Luis Sepulveda. Era ricoverato, da fine febbraio, in ospedale, a Oviedo, dopo aver contratto l’infezione. Lo scrittore cileno, che viveva da diversi anni a Gijon, aveva partecipato a fine febbraio a un festival letterario, in Portogallo, in compagnia della moglie. Dopo questo evento, entrambi sono stati ospiti di amici, per poi tornare in Spagna, dove vengono loro diagnosticati i sintomi della malattia. Tra i primi casi di covid-19 nelle Asturie, l’autore era stato messo in isolamento all’Ospedale Universitario Centrale di Oviedo.
Nato a Ovalle, in una cittadina del Cile, il 4 ottobre del 1949, ha avuto, nel corso della sua vita, vari impieghi, tra i quali quello di giornalista, regista, sceneggiatore e di attivista per la difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Durante la sua infanzia, trascorsa in Cile, egli si è interessato molto alla politica, seguendone le vicende con significativa passione, aderendo alla militanza comunista. In seguito al colpo di stato perpetrato dal generale Augusto Pinochet, conobbe le torture del carcere, che lasciò solo grazie a un intervento di Amnesty International. Fuggendo, successivamente, dalle persecuzioni del dittatore cileno, viaggiò lungo l’America Latina, prima di approdare in Europa, stabilendosi ad Amburgo, subito dopo in Francia, e poi, ancora, in Spagna, suo ultimo paese d’adozione.
I suoi libri vengono pubblicati in Italia agli inizi degli anni ’90, risultando uno degli autori più apprezzati da quelle generazioni di lettori. La sua fama di autore leggero e acuto divenne ben presto internazionale. Scelse le favole per poter guardare più da lontano il comportamento umano, avvicinandosi maggiormente alla pura narrazione. Le considerava il genere ideale per potersi concentrare non tanto sull’evoluzione del personaggio, e, quindi, della trama, ma sui valori che intendeva trasmettere. E, grande importanza assume, nelle sue pagine, il valore dell’incontro con l’altro, dell’amicizia mai scontata e banale, della fratellanza nella diversità.
Sosteneva che la favola fosse speranza. “Io la vedo male, ma sono ottimista”, diceva. “Soli non possiamo cambiare, ma insieme sì. Il problema è la mancanza di coraggio per dire: questo non va bene, va cambiato! Io credo nel coraggio civile, perché l’ho visto in atto e so che può determinare il cambiamento”, asseriva con assoluta certezza.
Mi piace ricordare, qui, “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, per me, forse come per tanti, il più delicato e sintomatico dei suoi lavori: è una straordinaria fiaba che evidenzia concetti fondamentali per affrontare convenientemente l’esistenza, e da cui emerge, sapientemente, una condanna verso l’azione assurda e incosciente dell’uomo, che, tante volte, non è interessato al rispetto del proprio pianeta e di ogni forma vivente. La morte della giovane gabbiana è la metafora di questo dilemma moderno. C’è tristezza, ma anche una sorta di energica speranza in quell’uovo che depone prima di morire. E, mi piace, ancor di più, pensare che gli amanti della fiaba sepulvediana, oggi, uniti idealmente, stiano a guardia di quell’uovo, da cui far rinascere l’ottimismo che lo scrittore scomparso divulgava con entusiasmo, prospettando una vita migliore e un’umanità più caritatevole.
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