Letteratura
Francesco Carofiglio – La stagione bella
F. CAROFIGLIO, LA STAGIONE BELLA, Garzanti.
La stagione bella è un romanzo intenso e propositivo: pur senza sottrarre nulla alla profondità del dolore che attraversa l’esistenza umana, F. Carofiglio suggerisce che esiste comunque un altrove possibile, una “stagione bella”, una frontiera dell’oltre che, certo, sta a noi saper raggiungere.
La protagonista, una giovane donna, Viola, nel suo laboratorio crea fragranze che sono per lei qualcosa di più che semplici profumi: lei le definisce una strategia terapeutica, aprono le stanze segrete dell’inconscio, raccontano le emozioni senza passare attraverso le regole dell’intelletto. Infatti Viola, laureata in psicologia, consente ai suoi clienti di recuperare le loro memorie olfattive: attraverso le fragranze li riconnette con il loro mondo interiore, con il loro passato, liberando dal rimosso emozioni nascoste.
Viola ha perso recentemente la madre, Barbara. Perciò è prostrata dal lutto, ma trova momenti di sospensione alla sua amarezza nuotando: l’acqua è la sua libertà.
Mentre riordina la casa materna, un giorno, per caso, trova una scatola che contiene lettere e fotografie della madre, persino registrazioni della voce di Barbara, ancora ragazza, studentessa alla Sorbona di Parigi. La sua voce allegra, il suo volto sorridente, portano Viola a una presa di coscienza: lei della madre non sa niente, così felice non l’ha mai vista. C’è un pezzo di vita di Barbara che a Viola è ignoto e che però la riguarda. Viola comprende che senza memoria c’è il buio, anche sulla sua vita, anche sul suo presente.
A questo punto inizia la quête di Viola, un percorso di ricostruzione del passato della madre e soprattutto di ricerca di quel padre che a Viola è sempre mancato, che lei non ha mai conosciuto e di cui la madre non ha mai voluto parlare. Da questo viaggio a Parigi alla ricerca di risposte, da questo percorso di autocoscienza, per Viola nasceranno nuove prospettive su di sé e sul senso del dolore.
La scelta di intersecare il lavoro di olfattivista con quello di psicologa trova nel romanzo un input letterario. La protagonista dichiara di essersi ispirata, infatti, a un racconto di Calvino, Il nome, il naso (che fa parte della breve raccolta Sotto il sole giaguaro): come il personaggio di Calvino, anche Viola cerca di dare un nome a una commozione dell’olfatto. E si tratta di un impegno nobilissimo. Oggi siamo terribilmente dipendenti dalla dimensione visiva e in cerca di visibilità, che è stata ormai messa da parte la capacità orientativa dell’olfatto. Calvino scriveva che abbiamo dimenticato l’alfabeto dell’olfatto e così i profumi resteranno senza parola, inarticolati, illeggibili e con loro anche le emozioni ad essi collegate. Rischiamo di diventare analfabeti emotivi. Calvino nel suo racconto nota che in passato, quando noi esseri umani non eravamo ancora completamente evoluti e vivevamo a contatto con la terra, tutto quello che dovevamo capire lo capivamo col naso prima che con gli occhi … il cibo il non cibo il nostro nemico la caverna il pericolo tutto lo si sente prima col naso, tutto è nel naso, il mondo è nel naso … l’odore subito ti dice senza sbagli quel che ti serve sapere. La storia umana invece ha ridotto il nostro “rapporto olfattivo” con la realtà, nell’era dell’homo videns, il naso ormai conta poco. E invece per Viola il profumo funziona come una madeleine proustiana, attiva memorie e emozioni.
Al di là dello studio che Viola conduce sulla dimensione interiore delle persone che frequentano il suo laboratorio, il tema dominante del libro di F. Carofiglio è il rapporto tra Barbara e Viola, madre e figlia: un legame strettissimo, fatto, sì, di profondo amore, ma anche di ombre. Con Barbara Viola ammette ossimoricamente di aver avuto un legame insano e perfetto. Il loro è un rapporto caratterizzato da parole dette e svanite, da molti silenzi. La giovane donna sul letto di morte di Barbara riflette sul suo legame con la madre: penso alla sua vita, alla mia, così annodate. ANNODATE è un aggettivo ambiguo: indica due vite unite, sì, ma pure non lineari, fatte cioè di nodi non sciolti che pesano.
Se del padre Viola ha subito l’assenza, della madre invece dice, con un peso sul cuore, non riesco a ricordare quasi nulla che non contempli la sua presenza. Barbara è stata una madre forte, lei ha imposto alla figlia il nuoto (certo poi Viola lo ha amato, è diventata la sua passione, ma si è trattato in origine di una scelta della madre) anche nei momenti più delicati: Viola ricorda con terrore il giorno in cui ha detto a Barbara di non sentirsi bene, ma la madre senza dare peso alle parole della figlia, l’ha spinta a nuotare ugualmente, non l’ha ascoltata, e nella memoria della ragazza ora c’è solo una piscina allagata di sangue. Quello ricordato da Viola è il giorno del suo primo ciclo mestruale. E ora, dopo anni, questo trauma non si cancella: ti odio, mamma, ti odierò per sempre.
Barbara ha tenuto stretta a sé Viola, non ha fatto entrare nessuno nella loro vita: non abbiamo bisogno di nessuno, tu e io, ha sempre ripetuto. Un microcosmo, una prigione? Il lettore scoprirà che Barbara ha solo cercato, per tutta la vita, di proteggere sua figlia, per infinito amore, da un infinito dolore. Ma Viola ancora non lo sa. Lo capirà dopo e rivolgendosi idealmente alla madre morta, ammetterà: mi hai protetta ferocemente.
M. Recalcati nel saggio Le mani della madre, scrive che l’eredità materna riguarda il sentimento della vita. Dalla relazione con la madre deriva il nostro rapporto con la vita. E quella che Barbara ha lasciato a Viola è un’eredità emotiva complessa, che ha lasciato segni, cicatrici, insieme a un profondo amore.
L’anatomia del dolore di Viola condotta dall’autore rende La stagione bella un romanzo profondamente ovidiano. A Ovidio, infatti, ci sono riferimenti espliciti: viene citato chiaramente l’Ovidio delle Metamorfosi. Ma il libro di F. Carofiglio è ovidiano per un particolare meno esplicito ma forse più importante, per una frase che condensa il senso di questo romanzo: quando Viola si reca a Bari per incontrare l’amico Matteo, poliziotto, da cui spera di avere aiuto per la ricerca del padre, Viola dice a se stessa, stanca di soffrire: questo momento passerà e questa sofferenza mi sarà utile.
Questa sofferenza mi sarà utile è la traduzione di un verso degli Amores di Ovidio: dolor hic tibi proderit olim, letteralmente “un giorno questo dolore ti sarà utile”.
Viola sta capendo che con il dolore bisogna imparare a convivere per rinascere: è questa la lezione che F. Carofiglio ricava anche dal KINTSUGI, l’arte giapponese che ripara i vasi rotti lasciando in evidenza le crepe, decorate con oro, affinché si vedano. Il vaso riparato è però un vaso nuovo.
Nella vita è così, tutto si trasforma: è il principio ovidiano delle Metamorfosi, omnia mutantur, tutto cambia, anche il dolore: le ferite a un certo punto smettono di sanguinare e diventano cicatrici.
Dopo aver svuotato la casa della madre e riverniciato le pareti di bianco, Viola dice non so ancora cosa ne farò, ma adesso è una casa vuota, e piena di luce. La stagione bella è quella del cambiamento, della speranza, che non cancella il dolore, ma lascia spazio alla luce, se si impara a perdersi nei propri desideri, se si riesce a riconoscerli e ad ascoltarli. E questa è una delle eredità emotive che Barbara ha lasciato a Viola: se ci perdiamo scopriamo i segreti delle città. Nella nostra vita dobbiamo imparare ad attraversare le strade dei nostri desideri, al di là degli schemi razionali.
Inoltrarsi nella lettura de La stagione bella significa incontrare numerosi e stimolanti riferimenti letterari. In particolare colpiscono le molteplici citazioni di Virginia Woolf, tratte da Mrs Dalloway, da Orlando. Il romanzo si apre in esergo con una frase del più sperimentale dei libri di V. Woolf, Le onde: e se finisse qui la storia?/ Con una specie di sospiro?
Le onde è il romanzo di V. Woolf che meglio ritrae la mutevolezza della vita, la sua mancanza di linearità, la molteplicità delle prospettive che la connotano, il flusso ininterrotto con cui l’esistenza si manifesta e scorre, la sua atomizzazione in frammenti dispersi che non si lasciano ricomporre in un quadro definito e completo. E Viola se ne rende conto, gradualmente: niente somiglia a quello che è stato. La vita scorre, le cose cambiano, omnia mutantur.
Sospeso tra Ovidio e V. Woolf, La stagione bella sembra suggerire che la chiave interpretativa delle nostre vite sta proprio nel deporre la pretesa di definire tutto, di definirci. Forse è questo che va accettato: essere un po’ flâneur dentro la propria vita e avere la forza di vivere come Ginevra, un personaggio secondario de La stagione bella, ma a cui F. Carofiglio riserva uno spazio fondamentale. Ginevra è una donna anziana, libera da formalismi e ipocrisie, ha avuto amanti e un passato abbastanza spregiudicato. In Ginevra, nel suo essere senza filtri, nell’aver capito che non esiste un modello di vita ideale, assoluto, giusto, cui attenersi, Viola vede un punto di riferimento. C’è una frase dal valore epifanico con cui Ginevra assolve il padre che a lungo ha disprezzato: ognuno è quello che riesce ad essere. E questa è la profondissima rivelazione che colpisce Viola e forse la cambia per sempre. È in questo momento che inizia la svolta di Viola verso la speranza che un’altra vita è possibile e che bisogna accettare anche l’imperfezione, l’indefinitezza, le asimmetrie dell’esistenza.
In definitiva potremmo considerare La stagione bella un romanzo sulla ricerca della felicità. Sei felice? è la domanda che Viola rivolge all’amica Valeria, ma più probabilmente a sé stessa.
Verso la fine del libro di F. Carofiglio c’è un’immagine che monopolizza l’attenzione di Viola, giunta in Bretagna per le sue ricerche: l’oceano è di piombo, le onde si infrangono sulla scogliera, un paio di uccelli marini si lanciano a precipizio sott’acqua, riemergendo subito…
Nel dolore si precipita, dal dolore si riemerge. Omnia mutantur, πάντα ῥεῖ.
(Questa riflessione è reperibile anche sul blog “La profondità delle cose”)
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