Letteratura
“Forse mio padre”: fatica e ricchezza delle radici nel romanzo di Laura Forti
Sei forse mio padre. Anzi, forse eri mio padre, forse sei stato mio padre, giacché ora non ci sei più, sei morto, non ti ho mai conosciuto e il nostro tormentato non-rapporto, dalle radici profondissime quanto inesistenti, può finalmente chiudersi: «Mi chiamano. Devo tornare a casa», da mio marito e da mia figlia, dalla mia famiglia. Così Laura Forti mette il punto letterario e reale alla storia; la vita la reclama, l’aspetta il domani, il futuro.
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“Forse mio padre” (Giuntina editore), secondo romanzo di una donna, Laura Forti, da sempre alla ricerca. Che rovista fin da “L’acrobata” (sempre Giuntina) nella scomoda e pungente ricchezza delle identità multiple, esplora la rabbia sorda e la pena e il rimorso, la Memoria e le memorie, il lacerante, schietto linguaggio della depressione. Una madre che in punto di morte le comunica che chi l’ha allevata insieme a fratello e sorella non è il genitore biologico. Quella madre così eccezionale nelle proprie miserabili e al tempo stesso eroiche, meravigliose contraddizioni, schiava di se stessa, della Storia, dell’egoismo. A questo punto Laura non può fare finta di nulla e si mette, appunto, alla ricerca di quella presenza impalpabile che probabilmente ha sempre “sentito” pur nel silenzio, nell’ombra, nell’incoscienza. Inizia un viaggio verso la messa a fuoco di un fantasma (messa a fuoco di un fantasma: la potenza dell’ossimoro), fantasma che possa colmare un vuoto probabilmente incolmabile. Un viaggio senza sconti, un percorso psicoanalitico che guarda in faccia la realtà diritta negli occhi, e non la fugge anche quando ne è atterrita.
«Tutto questo fa di me una persona danneggiata. Una persona che apparentemente ha una vita normale ma che nasconde nell’anima una crepa, una ferita silente che a volte riprende a sanguinare senza che nessuno veda. Sarà così, per sempre. Il tormento ciclicamente si ripresenterà, polvere depositata sul fondo, pronta a risollevarsi per un soffio di vento, nonostante abbia l’illusione di aver ripulito». C’è tanto di quello strazio in queste pagine che tuttavia regalano compiutezza, addirittura immensa dolcezza, vorrei dire gioiosa speranza.
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Forti rende vivi i suoi personaggi. Per forza!, li ha conosciuti bene, sono veri, sono la sua vita, sono la madre, il marito della madre, la nonna materna ebrea, in fondo anello forte di una catena che non ha fatto che spezzarsi tra guerra, resistenza, leggi razziali, sogni sionisti, innamoramenti, normalità benpensante. Ed è vivo anche lui, G., forse suo padre. Lui, “lo sfortunato” dalla nascita per quella voglia violacea sulla guancia. Lui che fin da piccolo, e per l’intera esistenza, sceglieva (o era costretto a scegliere?) l’ombra, la riservatezza, si sottraeva alla commiserazione, diventava invisibile all’occorrenza.
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