Letteratura
The weird and the eerie: dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo inquietante?
“Come in un triste sogno, piange di un pianto inconsapevole”. (F. Kafka, In galleria)
In principio fu Kafka. Nessuno come lui ha saputo tradurre il senso di angoscia e di impotenza di fronte all’assurdo che entra nella quotidianità e con cui l’essere umano è costretto costantemente a misurarsi, sperimentando la completa inadeguatezza delle proprie categorie conoscitive e interpretative rispetto a ciò che enigmaticamente lo sovrasta e inspiegabilmente lo schiaccia. Nella narrativa di Kafka il soggetto ha l’impressione di vivere un triste sogno, un incubo che rende terrificanti i giorni. Non resta che un pianto inconsapevole, espressione della totale incapacità di trovare una spiegazione alla rottura di ogni equilibrio: un’esperienza spaventosa e inquietante, ma vera. Gregor Samsa che si sveglia scarafaggio spera, certo, che si tratti di un brutto sogno, ma tutto congiura contro di lui. L’uomo-in(s)etto disperatamente constata ciò che la voce narrante subito conferma: non era un sogno. E non c’è niente da fare.
L’impotenza a spiegare l’assurdo che rompe quel fragile cielo di carta – direbbe Pirandello – delle certezze tradizionali (scientifiche, religiose, razionali) oggi ha nomi nuovi e più incisivi. Mark Fisher parla di weird and eerie, “strano e inquietante”.
Attraverso un viaggio nella letteratura e nella musica contemporanee, Fisher ridefinisce e arricchisce di sfumature l’unheimlich freudiano che ha avuto in Kafka uno dei suoi migliori interpreti.
Vivere la dimensione del weird significa sentire che nella realtà in cui viviamo c’è qualcosa di inspiegabilmente stonato, fuori posto, non corretto. Si tratta della percezione di svuotamento di senso del mondo, destrutturato e privato di ogni “semantica fondativa”, spiega nella postfazione Gianluca Didino. Vengono in mente le atmosfere grigie e sospese del paesaggio post apocalittico – carbonizzato e devastato – che, per esempio, Mc Carthy descrive nel romanzo La strada. È effetto del weird la serpeggiante e irreversibile sensazione di aridità esistenziale.
Prendendo, poi, le mosse dal racconto di Daphne du Maurier, Gli uccelli e dalla sua tanto magistrale quanto impressionante trasposizione cinematografica ad opera di Hitchcock, Fisher spiega il concetto di eerie: una disintegrazione progressiva delle certezze, il fallimento di ogni capacità di intervenire con efficacia costruttiva e trasformativa sul mondo circostante.
Viviamo in tempi strani e in un mondo reso strano dai tempi, scrive Didino alla fine del libro: surriscaldamento globale, incombenti dittature digitali, fake news che s’imprimono come verità e condizionano l’immaginario collettivo e i comportamenti delle persone, l’ombra immateriale eppure tirannica del capitalismo che dispoticamente dirige le nostre vite, sono il vero trauma del presente.
Se, tuttavia, nei testi di Kafka la dimensione allegorica è ancora preponderante – sebbene si tratti di allegoria vuota, come ha osservato W. Benjamin – nell’interpretazione di Fisher, sottolinea ancora Didino, weired e eerie sono l’attualizzazione sul piano del Reale del perturbante freudiano. Insomma, Fisher ci dice che è la stessa realtà ad essere ormai assurda, incredibile, innaturale al punto da sgretolare la nostra usuale nozione di mondo, vita, umanità.
Abbiamo visto in TV il crollo delle Twin Towers come se fosse stato un disaster movie e invece era storia; abbiamo visto circolare sul web video di attentati jihadisti e appelli di ostaggi catturati da Daesh e non era una fiction; dopo Obama siamo stati testimoni della vittoria elettorale di Trump – nota ancora Didino – ed è un fatto vero, non un triste sogno; abbiamo pianto per bambini naufragati e mai giunti sulle nostre coste, negate loro non dal destino ma da umane follie, e non era un film. Distopicamente affidiamo le sorti del nostro Paese alle istintive reazioni di un manipolo di iscritti ad una piattaforma dal vago nome illuminista (Rousseau) che ambiguamente gioca tra il nobile principio di volontà generale e quello pilatesco di volontà popolare.
Questo è weird and eerie.
Fisher avverte che le distopie non si collocano più in un futuro lontano ed eventuale – forse pure affine al presente per certi versi, ma comunque di là da venire – come Orwell e Huxley credevano.
Ormai è la realtà quotidiana ad essere distopica. Non bisogna pensare, infatti, al perturbante come a qualcosa di vampiresco o soprannaturale: anche un buco nero, ci ricorda Fisher – è per noi strano, misterioso ed inquietante. E oggi (ma forse è stato sempre così) la storia sembra proprio un buco nero: non sondabile, imprevedibile.
E, dunque, non c’è alternativa, non esiste una possibile exit strategy?
Fisher non lo spiega.
Eppure non possiamo arrenderci e normalizzare il nostro disagio di fronte a una simile realtà che, invece, tocca a noi riumanizzare.
Scriveva Brecht, acuto conoscitore di tempi inquietanti:
E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto ‘è naturale’ in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile. (B. Brecht, L’eccezione e la regola)
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