Letteratura

“Finché un giorno”: una storia di amori

13 Agosto 2019

Bastano tre, quattro inquadrature e subito si capisce che la pellicola è israeliana. Non ci sono scritte in ebraico, non ci sono immagini liturgiche né targhe automobilistiche riconoscibili, neppure piazze, strade, monumenti noti. Il doppiaggio è praticamente perfetto. Eppure bastano tre, quattro inquadrature e immediatamente si capisce che il film viene da Israele. Ci avete fatto caso?, è spessissimo così. Poi accade che un regista/sceneggiatore, per altro famoso e pluripremiato, scriva un romanzo di oltre cinquecento pagine, e? E bastano tre, quattro pagine per giurare che la storia è israeliana scritta da un israeliano.

“Finché un giorno”, di Shemi Zarhin (Spider&Fish), è, in fondo, una travolgente storia d’amore – meglio: di amori. Amori complessi, profondi  che di più non si può, incommensaurabili, sentimenti eterni, senza ieri e senza domani. Amori. Tenerissimi, che infrangono tabù etici e sessuali, disperati nella propria dolcezza («Perché io prego che tu sia mia, / solo per poterti dimenticare.»). Una storia che ha un tempo, gli anni Sattanta – dal 1969 al 1983 -, e un luogo, Tiberiade. Cittadina sfumatamente magica, in dissolvenza (lo dico anche per avere conosciuto il suo incanto molti anni fa) o forse semplicemente un posto che «si trova in un altro paese, di cui non si scrive sui giornali d’Israele, un paese caldo e sudato in cui l’aria è ferma e la gente vi cammina a stento, un passo dopo l’altro, come dentro a una pozza di sabbia».

Ruchama, Robert, Shlomi e il nuovo Shlomi, Hilik e il nuovo Hilik, Ella, Hanna i protagonisti. Maledizioni, passioni. Tutt’intorno figure non meno significanti, testimoni del passato e del presente. Del futuro. La sofferenza, le speranze, i cuori spezzati, le malattie, le guerre, le vite spezzate. «Patrimonio genetico, così lo chiamavano nel programma televisivo, e dimostravano con buffe illustrazioni come distribuiva generosamente se stesso e il suo carico. Quei fili passano da una generazione all’altra, e ogni volta costringono la gente a fare nuovamente i conti con ciò che preferirebbero dimenticare».

Il pensiero va ad Anne Ancelin Schützenberger e al suo straordinario “La sindrome degli antenati – Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico” in cui ci spiega il mistero-che-mistero-non-è e cioè che siamo semplici anelli in una catena di generazioni, e spesso non abbiamo scelta e diventiamo vittime di eventi e di traumi già vissuti. Qui però c’è di più: un’immaginazione ipnotica si lega indissolubilmente alla sensualità dell’unione dei corpi, alla potenza eterna e infinita delle parole. Il bianco e nero si sovrappone al colore e viceversa.

Davvero un gran bel libro.

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