Letteratura
Figli
In tutte le giovani donne, in ogni ragazza
freme lo spreco del mestruo buttato
(il lungo, estenuante rubino
fluviale destinato a interrarsi,
sperdendosi sterile, inforrandosi
vano), che potrebbe fecondo
riprodursi, germogliare:
e forse ogni giovane donna lo spera,
lo sogna ogni ragazza,
un dio-fiume del sangue
nutritore (Varuna, Alfeo).
Fertile d’erba, di alberi,
di piccoli folletti sotterranei
– larve, crisalidi notturne.
E quando si ferma, il fiume,
bloccato da una diga da un masso,
e cresce dilatandosi forzando i margini
(ne nasce uno stagno, poi un lago,
un mare alla fine: a cui dire grazie),
ecco l’assoluto dovere,
il necessario divenire, l’espandersi.
O vita in conchiglia, granello di sabbia
nel molle fondale, o notte cavernosa
che lenta ti fai perla;
e come luminosa come consapevole di forza,
di vittoria sul buio sul non essere
diventi. Presenza, una madre ti conosce,
ti attende in timore in fierezza.
In questo modo si sono incontrati, e forse scelti,
immaginati nei lineamenti, somiglianti,
i due: da subito stretti in nodo
di egoismo. Come potrebbe, infatti,
essere diversamente, se si sono mescolati
nel sangue, insieme nutriti
e addormentati, insieme nel ricatto
del nome. Hanno simili gli occhi;
impareranno col tempo a imitarsi
nei gesti, nei modi di dire.
Chi mai oserà separarne
i pensieri e le ombre, anche dopo,
anche nel buio che li nasconderà?
Si cercheranno, magari odiandosi;
continueranno a chiamarsi spauriti.
Il primo di loro che avrà mancato lo svegliarsi
susciterà stupore, nostalgia: forse
qualche imbarazzo nel piccolo mondo che abitava
(le sue stanze, così ordinate adesso,
rimpiangeranno odori passi voci).
Col tempo, ogni assenza diventa un’abitudine,
il dolore si stempera, per la stessa indulgenza
dei rimorsi. L’altro, però, quello dei due rimasto,
a lungo non saprà rassegnarsi, mentirà
un probabile sollievo, o irredimibile
disperazione a seconda di chi gli parlerà.
Ma nel fondo delle notti, nelle albe
abissalmente chiare saprà del suo respiro
l’inutile perseveranza, il cieco vagare
del domani. Disobbediente, pigro.
Sicuri del loro appartenersi, estranei
invece: oppure simili, ma ereditando
ogni molecola da altro (fossili,
piogge, reami. E ospizi di vecchi,
nozze di timide spose, cani randagi
dietro a un funerale). Nessuno possiede
nessuno, questo hanno imparato
lasciandosi; eppure si nutrivano di sé
per lunghi anni, indispensabili
fingendosi, ma ricattanti.
Più modesti, ora, si temono
quasi indifferenti alla promessa vissuta,
al perdersi futuro, tombale.
Gridano, dunque, la loro ribellione.
Da Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2016
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