Letteratura
Fante e l’emigrazione italiana: “La Confraternita dell’Uva”
“Come Paolo, che ebbe il suo momento di verità prima di Damasco, così Henry Molise aveva avuto il suo frammento d’estasi venticinque anni prima nella biblioteca civica di San Elmo”.
Nei suoi romanzi, Fante, sia in quello d’esordio, Aspetta primavera, Bandini, che in La Confraternita dell’Uva, ma anche in altri suoi, ci racconta la vita degli emigrati italiani dei primi del ‘900, personaggi turbolenti, forestieri, sempre sporchi, ma tremendamente attaccati alla vita; un dirty realism che trae spunto dall’esistenza stessa dell’autore. Dirty realism perché descrive le brutture quotidiane della vita degli emigrati italiani. Fante non ha paura di sporcarsi le mani, né di invischiare i suoi lettori nelle ragnatele della miseria in cui versano i suoi personaggi, la materia a cui attinge non è altro che la sua stessa esistenza, difficile e turbolenta, piena di insuccessi, rifiuti e amarezze. Combattuta, però, sempre fino alla fine.
A livello storico l’opera di Fante costituisce un’importante testimonianza sulle condizioni degli emigrati italiani dei primi decenni del ‘900 e il suo testo di debutto Aspetta primavera, Bandini, tradotto da Elio Vittorini nel 1941, è particolarmente significativo poiché in esso compaiono tutti gli italianissimi personaggi della vita dello scrittore. Fante non teme gli stereotipi e attinge proprio a essi per raccontare una realtà che non gli si discosta poi di molto.
In La confraternita dell’Uva, Nick Molise è un muratore abruzzese, gran bevitore e donnaiolo impenitente, nonché giocatore incallito e maestro scalpellino, che agli inizi del Novecento approda a Ellis Island e qui si sposa. La storia narra il rapporto conflittuale tra il muratore in pensione, sia con la moglie, Mary Capoluongo, donna molto devota, che con i suoi figli, uno dei quali fa lo scrittore, Henry, alter ego di John Fante.
Tramite la figura di Nick, l’autore descrive quella del padre alle prese con i suoi sogni irrealizzati e una famiglia sulla quale scarica la propria amarezza e frustrazione. Nicola Fante, abruzzese di Torricella Peligna, piccolo centro montano in provincia di Chieti, sbarcò a New York nel dicembre del 1901, agli albori di un nuovo secolo che, per un emigrante come lui, si presentava ricco di prospettive da cogliere. Il padre quindi è personaggio nei romanzi del figlio John Fante, egli stesso è un vero personaggio così come la sua vita fu un appassionante romanzo. Personaggi sono stati tutti i Fante, compresi gli avi, a cominciare da Domenico, detto Mingo. Fedele suddito dei Borboni e valoroso brigante nella guerra di unificazione nazionale, venne arrestato, accusato di tradimento e impiccato. Le sue gesta divennero una gustosa leggenda per il giovane John grazie ai racconti del nonno Giovanni, il primo della famiglia a raggiungere gli Stati Uniti.
Fante decide di non seguire le orme paterne, ventenne lascia il Colorado per la California e più precisamente per la città degli angeli, Los Angeles, animato da una certezza granitica e da un ardente desiderio: non avrebbe mai preso una cazzuola in mano e sarebbe diventato un grande scrittore, anzi il più grande di tutti. Parte in autostop con un dollaro in tasca. «La miseria mi spinse in California», scrisse anni dopo, ma più della miseria cui è abituato, è l’ambizione di scrivere la sua ossessione. Arrivato a Los Angeles, prende in affitto una stanza a Bunker Hill. In California, benché già conscio della propria vocazione letteraria, è costretto a lavorare come lavapiatti, fattorino d’albergo e operaio in una fabbrica di scatolame per pesce pur di riuscire a mantenersi.
Nonostante le sue cristalline capacità, John Fante rimane pur sempre un “dago”, spregiativa espressione slang riferita agli oriundi italiani, nomignolo che fa riferimento al vino rosso degli immigrati, il cui milieu familiare anima l’intera opera fantiana.
La moglie, la poetessa Joyce Smart, spiegò che Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra e che questo atteggiamento aveva costituito un vero e proprio ostacolo per la sua carriera in un ambiente fortemente politicizzato, quale quello cinematografico, che lo aveva avvertito sin dall’inizio come un renitente, un intruso, un infiltrato.
Fante vuole sottrarsi all’etichetta di letteratura sociale e a quella di letteratura proletaria socialmente impegnata. Per lui la letteratura non ha valore documentario.
Le sue opinioni sull’attualità destano scandalo. Rivendicava la sua indifferenza per le sorti della guerra, considera una sciocchezza i discorsi di Hitler, dichiara, facendo sfoggio di un’originalità che rasenta l’impudenza, che non si era bevuto il comunismo e non trovava granché nel fascismo. L’unica guerra che intende combattere è quella che lui stesso aveva intrapreso: quella di guadagnarsi da vivere facendo lo scrittore. Al suo giudizio iracondo e sarcastico, non sfuggono i critici comunisti colpevoli di bocciargli i racconti, né vuole sentir parlare di marxismo i cui principi, stupidi gruppi di laureati di Harvard dai loro salotti difendono pur non sapendone nulla. Secondo Fante, usano le masse come materiale, ma non simpatizzano se non in modo ipocrita. Per quello che gli riguarda, non simpatizza con le masse, non si sarebbe sporcate le mani per salvarle. Esse sarebbero sempre esistite e riteneva che fossero formate da sciocchi necessari alla società. Addirittura afferma di odiarle, disprezza il loro fiato sporco e le loro menti vuote non toccate dall’istruzione.
Dichiarazioni poco concilianti con l’immagine di scrittore sociale che gli era stata costruita in Italia da Elio Vittorini che aveva pubblicato nell’antologia Americana, con il titolo Una famiglia neoamericana, un brano di Fante estratto dal primo capitolo di Aspetta primavera, Bandini. Probabilmente Vittorini aveva preferito presentare Fante come rassicurante icona dell’immigrato di seconda generazione che si eleva a cantore delle masse dei diseredati, piuttosto che per quello che davvero era: un genio della narrazione, uno scrittore delle emozioni, ma anche un irregolare, un individualista anticonformista e provocatorio, con un irresistibile gusto per la battuta salace e feroce come quando afferma che ˂˂i poveri non sono rossi˃˃.
Il romanzo, La confraternita dell’Uva, inizia con un litigio tra Mary e Nick. Avendo scoperto del rossetto sulla biancheria del marito e avendo chiesto spiegazioni, questi la aggredisce, mettendole le mani al collo e dandole calci che lasciano segni violacei sul corpo della donna. Mario, uno dei quattro figli, avendo visto le contusioni sul corpo della madre, si precipita al comando della polizia per sporgere denuncia. L’episodio si conclude bonariamente per intercessione della moglie stessa, incline alla tolleranza nei confronti di quel marito testardo che “nel corso degli anni, nei saloon, nelle sale di biliardo, si era cacciato in tante baruffe che il buon nome della famiglia era ormai compromesso”. Il litigio e la volontà di divorziare da parte della madre sarà il motivo per cui Henry lascerà Redondo Beach, a Los Angeles, per ritornare alla sua casa d’origine e risolvere questioni di famiglia.
Nick Molise è sanguigno, rumoroso, collerico, bestemmiatore provetto, alquanto rozzo, col vizio del gioco e pieno di debiti.
I verbi che lo descrivono ne rilevano la bestialità: “Latrava perchè Henry scriveva troppo, ringhiava perché leggeva troppo”.
La sua seconda famiglia, anzi la prima, è costituita da coloro con cui Nick condivide la grande quantità di vino che tracanna. La sua famiglia è soprattutto Zarlingo, Cavallaro e Angelo Musso, che per la vecchia guardia italiana era una specie di oracolo, un saggio, un profeta, un “dio che faceva fermentare il più incantevole vino del mondo”. Sono loro che convincono Henry a dare una mano al padre nel costruire l’affumicatoio, facendo leva sul suo senso di dovere di figlio. Quest’ultimo si lascia persuadere mosso da un senso di un’umana pietà nei confronti di un vecchio che, dietro la scorza dura, vede piangere come un bambino quando durante l’incoscienza del sonno, ripensa alla madre. In quel frangente è la moglie a consolarlo e pulirgli il viso dalle lacrime, una moglie che sebbene non abbia più attrattiva ai suoi occhi in quanto donna, è ritorno alla sua infanzia nelle braccia materne.
“- Diamoci una mossa! – ordinò come un pazzo al comando di altri pazzi. Io gli lanciai la mia peggiore occhiata, disgustato com’ero per i suoi eccessi di bevitore e per quel suo modo di strapazzarsi in quella manciata di giorni che gli restavano”.
Nick Fante è il prototipo dei personaggi fantiani: attaccati alla vita con unghie e denti, resi forti dalla durezza della fame e carichi di quella spinta a risalire che solo chi ha conosciuto i bassi fondi possiede. Proprio come John Fante che non si arrende nemmeno davanti alla cecità e all’amputazione di entrambe le gambe a cui lo porta una grave forma di diabete, e che continua a dettare alla moglie la sua prosa stracolma di vita, fino alla morte.
La pazzia del vecchio Nick che sfida il pericolo caricandosi la schiena malandata di grossi massi, che lo curvano senza fiaccarne la volontà, che si sottopone a ore estenuanti di lavoro solo per costruire un muro, che si riempie di vino per non sentire il peso della fatica, ha come scopo quello di guadagnarsi il rispetto dei suoi amici, degli abitanti di San Elmo a cui mostrare la sua incrollabile capacità di maestro scalpellino, persino quello della morte a cui opporre la sua virile efficienza.
Dostoevskij con la sua capacità di parlargli dell’uomo e del mondo, di delitto e castigo, di padri e figli, lo lega in un sentimento di profondo rispetto e orgoglio al padre che nonostante povero, sofferente, disgraziato, trabocca di vitalità. In quel bastardo, duro, “che aveva la sindrome del capo, del pezzo di novanta”, non c’è traccia di mestizia né di rassegnazione. Dopo la sua morte avvenuta per coma diabetico, Henry Molise scopre che quei gradini di arenaria rossa che il padre ha costruito dinanzi all’ingresso della biblioteca, lo connettono alla sua esistenza di scrittore, sono nelle sue cellule di figlio proprio come i fratelli Karamazof, e lo hanno nutrito sfamandolo col dolce nettare della devozione.
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