Letteratura
Fabrizio Gifuni e le carte di Aldo Moro
È un oggetto strano. Formalmente e tecnicamente è un libro, nulla da obiettare. Un libro con una bella grafica, delle pagine piene di caratteri neri che compongono parole, una introduzione e un prezzo di copertina. Di fatto, però, questo libro è anche altro: è innanzi tutto una ricerca storica, una indagine, una inchiesta approfondita su fonti più o meno note, capaci di restituire al lettore una pagina ancora oscura della storia italiana.
Ma ancora non è finita, perché questo libro e questa inchiesta sono soprattutto uno spettacolo, un bellissimo spettacolo teatrale. Sto parlando di Con il vostro irridente silenzio, edito da Feltrinelli, lavoro (teatrale) dato alle stampe dal suo autore, Fabrizio Gifuni. Ed è in sostanza il viaggio che l’attore e regista ha fatto nelle carte – lettere e memoriale – scritte da Aldo Moro durante i 55 giorni di prigionia.
Non sto qui a parlare dello spettacolo, che è stato già ampiamente applaudito (è davvero bello) e acutamente recensito. Mi tengo invece all’oggetto-libro, al mondo che contiene e svela. Gifuni ricorda di essere stato invitato da Nicola Lagioia a fare qualcosa, una serata, per il Salone del libro di Torino del 2018, a quaranta anni dai tragici fatti. Da super professionista qual è, Gifuni si è messo a lavoro: avendo già incontrato il “personaggio” di Moro sia per la televisione che per il cinema, la sua biblioteca era già fornita di titoli. E non manca, difatti, una ampia letteratura in merito, anche decisamente approfondita e articolata. Ma quel che, nella sua indagine, era sembrato interessante per Gifuni era un altro dato, inequivocabile: il fatto che le tanto attese e temute carte di Aldo Moro, una volta rese note, non avessero suscitato alcuna reazione popolare. Quella mole di lettere, scritte febbrilmente da un uomo che non poteva fare altro, chiuso nella sua cella e sottoposto al cosiddetto “Tribunale del popolo”, istruito dalle Brigate Rosse, è infatti una vera e propria miniera di notizie, informazioni, prese di posizione, condanne, rivelazioni anche scomode. Eppure nulla, a parte gli specialisti, se ne è parlato ben poco. Troppo poco.
Allora, forte della sua preparazione, addentrandosi nello studio di quel voluminoso carteggio, Gifuni ha avvertito l’esigenza – profonda, radicale – di dare voce al “fantasma” di Aldo Moro. Nella bella prefazione del libro, l’autore dice, senza mezzi termini che “il teatro è la casa dei fantasmi”. La casa di questi corpi insepolti, senza pace, che tornano per far sentire la propria voce, per ritrovare un riflesso di vita attraverso il palcoscenico e la presenza fisica, materica, dell’Attore. È una bella suggestione.
Di fatto, potremmo scrivere una storia del teatro inseguendo i fantasmi. Dai Persiani di Eschilo, dove appare lo spettro del re Dario, al capitano Alving degli Spettri di Ibsen, dal fantasma del padre di Amleto a “Questi fantasmi” raccontati da De Filippo fino a quei sei, ambigui ed evanescenti personaggi pirandelliani che ancora aleggiano sul palcoscenico del Teatro Valle di Roma, dove apparvero come fantasmi la prima volta nel 1921: in effetti sì, il teatro è la casa dei fantasmi.
Quel che fa Fabrizio Gifuni non è certo una seduta spiritica, ma forse solo un lasciarsi andare (o lasciarsi prendere) da quelle parole, da quelle “carte”. Così, dopo essersi già lasciato attraversare da Pier Paolo Pasolini, con un altro memorabile monologo, ora, con Aldo Moro, tocca vertici di assoluta e adamantina forza. Il libro dà conto di tutto ciò. E riporta su carta le parole del fantasma Moro. Lo coglie come statista ancora in pieno potere (dà ordini, scrive messaggi perentori, elabora strategie), oppure lo racconta nella ricostruzione implacabile della storia della Democrazia Cristiana, e dunque dell’Italia, dal dopoguerra a oggi, riflettendo sulla libertà di stampa, sul finanziamento ai partiti, sulla strategia della tensione, sul passato e sul futuro del suo partito. Un partito che sostanzialmente, come è ormai ben noto, lo ha abbandonato al suo destino. E Moro fa i nomi, chiama in causa uno per uno i suoi colleghi ormai ex amici, con una penna aguzza come uno stiletto esercita il suo tagliente potere di giudizio: “il mio sangue ricadrà su di voi” è la sua maledizione. In certi passaggi sembra di leggere davvero una tragedia shakespeariana, un complotto di palazzo degno delle peggiori e più oscure storie create dal bardo. Poi, quando Moro si trova a scrivere su Giulio Andreotti – con parole durissime – ecco quasi evocare l’afflato di una Antigone alle prese con una insondabile Ragion di Stato, incarnata dal livido avversario politico.
Ma, a ben vedere – se ci si potesse astrarre dalla realtà, dalla Storia – questo potrebbe essere anche, per sua natura, un “romanzo epistolare”, un racconto che si fa sempre più incalzante con lo scorrere del tempo, con la fine imminente, con la complessità di una corrispondenza scritta in un italiano, in una lingua bellissima, ricca, lucida, civile e poetica assieme. Non ci sono risposte alle lettere di Moro, se non quelle che percepiamo come eco, nelle lettere successive per fatti, comportamenti, conseguenze accadute o negate. È un epistolario a senso unico, dunque, ma non per questo incompleto, anzi.
Aldo Moro si racconta, in lettere piene di grande tenerezza, come marito, padre, nonno: e sono passaggi di una umanità struggente, pagine e pagine in cui il Presidente democristiano parla alla famiglia, con ricordi intimi, personali, pieni di amore. Fa autocritica, ammette i suoi errori, si rende conto della sua situazione e del momento inconcepibile, che vede segnato – cristianamente – dal numero 33: trentatré anni di matrimonio, trentatré anni di militanza nel partito.
Di tutto ciò il libro di Gifuni dà conto, scegliendo oculatamente nel vasto materiale ritrovato in due occasioni, la prima nel 1978, la seconda, nel 1990. Non pretende di essere un manuale di scienze politiche, tantomeno un libro di storia, eppure – nel sottendere entrambe queste prospettive – il libro apre a spiragli ulteriori che acquistano rinnovato senso e profondità, direi coronamento, nella “messa in scena” che mai come in questo caso è “messa in vita”. Ed un’altra “storia del teatro” sarebbe allora possibile, dopo quella dei fantasmi, e Gifuni la autorizza: c’è un collegamento che lega, attraversando la creazione drammaturgica, ciò che gli studiosi chiamano “teatro documento”, gli inglesi “verbatim theatre”: ossia quella scrittura teatrale che nasce proprio dai documenti, dalle carte, dagli atti storici. Potrebbe cominciare da La presa di Mileto di tal Frinico, un tragico che fu censurato proprio perché aveva trattato temi troppo attuali, ancora troppo dolorosi. Oppure potrebbe muovere da La morte di Danton, il celebre dramma del giovanissimo Büchner, scritto pochi anni dopo la Rivoluzione francese; ma certo toccherebbe, questa storia, anche L’Istruttoria di Peter Weiss, lavoro scritto a partire dagli atti del processo di Norimberga contro i gerarchi nazisti. In questo filone certo si può ascrivere, a pieno titolo, Con il vostro irridente silenzio: un testo che altri potrebbero riprendere i futuro, per un teatro che si fa carico della Memoria, della necessità del ricordo e della comprensione. Insomma, un libro che si fa teatro, un teatro che si fa leggere come una delle testimonianze più vive e profonde di quel che la Storia, e lo Stato, hanno raccontato e taciuto.
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