Letteratura
Essere Stephen King
Il Corriere della Sera ha provato a dire che lui meriterebbe il Nobel per la letteratura, ma comunque non lo vincerà mai. Lui è King, Stephen, 68 anni, 54 romanzi, 200 racconti e un fantastiliardo di copie vendute in tutto il mondo.
Il suo ultimi libro, da qualche settimana nelle librerie italiane grazie alla benemerita Sperling & Kupfer che detiene gelosamente il suo catalogo, s’intitola «Chi perde paga», è il secondo capitolo di una trilogia un po’ noir e un po’ scanzonata incentrata (più o meno) su un ex detective della polizia, sovrappeso ma pieno di buone intenzioni, che si fa strada tra i cattivi con il suo ‘castigamatti’, cioè un calzino ripieno di biglie di ferro. Deve fare male.
King ha sempre pagato il fatto di essere uno scrittore ‘di genere’, uno che si occupa di argomenti di serie B: l’horror, soprattutto, ma anche il giallo, il thriller, il western, la gangster story, il pulp, la fantascienza. Molti dicono che sia sprecato: il suo talento brilla in una prosa bellissima, ma purtroppo si occupa di cazzate.
Qualcuno ogni tanto dice che la sua è letteratura, ma sempre sottovoce. Forse è che vende troppo: nella critica letteraria mondiale c’è un vasto sottobosco di snob che in fondo – ma anche in superficie – pensano che chi ha tanto successo commerciale debba quantomeno essere guardato con sospetto: «Mangiate merda, miliardi di mosche non possono sbagliare» è una vecchia frase beat che serviva a difendere i tanti poeti più o meno sconosciuti che vendevano meno della metà del peggior fiasco di Harmony, tanto per dire. La verità è che – spesso, non sempre – chi vende poco è perché se lo merita. Ma non bisogna generalizzare, e comunque non è questo il punto.
Il punto è interrogativo, ed è in fondo a una domanda: i romanzi di Stephen King possono essere considerati letteratura oppure si tratta solo (solo?) di intrattenimento? Gyorgy Lukàcs scriveva che il romanzo è «forma vitale e condizione della forma» e la tragedia greca è la «raffigurazione della totalità estensiva della vita». Ovvero: non basta scrivere bene, bisogna anche scrivere qualcosa, non basta scrivere «un romanzo, bisogna scrivere un grande romanzo». Walter Benjamin parlava di «aura» come categoria estetica, cioè un’opera d’arte può essere definita tale soltanto se è «unica» e «incantevole».
Cosa c’entra Stephen King con tutto questo? Sono i suoi romanzi «unici» e «incantevoli»? Non tutti, sicuramente. Il suo essere eccessivamente prolifico – negli ultimi due anni in Italia abbiamo visto quattro suoi libri in libreria, l’anno prossimo ne arriveranno altri due – ci ha consegnato lavori non sempre convincenti, qualche boiata, un po’ di roba che sì è piacevole da leggere ma che sostanzialmente è solo un esercizio di stile. Eppure.
Eppure, (tante) altre volte King è riuscito a cogliere in pieno lo spirito del suo tempo, che in fondo è anche il nostro. Per dire – senza addentrarci nel trito e ritrito dibattito su «It» e sulla concezione dell’infanzia, o sulle comunità che si sfaldano per la paura come in «L’Ombra dello scorpione» o in «The Dome» –, basterebbe dire che la volta in cui lui l’horror l’ha appena sfiorato, ha scritto uno dei più profondi e toccanti libri sul Vietnam della letteratura occidentale: «Cuori in Atlantide», commovente elegia sul grande rimosso (e grande rimorso) americano, visto con gli occhi sempre più vecchi di uno che è stato giovane quando bisognava prendere voti alti al college per non partire a fare surf con Charlie tra i vietcong.
Ma non basta, Stephen King è solito esplorare il mondo fantastico per parlare della realtà. Una realtà che spesso è vicinissima, ci incombe addosso, la sentiamo muoversi sotto le nostre scarpe, mentre noi non riusciamo mai a interpretarla fino in fondo. Lui nemmeno ci riesce, ma riesce a cantarla, a renderla romanzo, a trasformarla in una storia da leggere.
Nella sua autobiografia «On Writing», King confessa che molti dei suoi lavori nascono da una semplice domanda: e se? «E se una città venisse invasa dai vampiri?», ecco «Le Notti di Salem», per dire. Un esercizio di logica per far saltare gli schemi della realtà e renderla più reale di quanto non sia mai stata. L’importante non è la verosimiglianza della narrazione, ma quella dei personaggi. Tutto in King appare inevitabile, fatidico, emotivo e potente: la vittoria dell’umanità sulla trama. «La totalità estensiva della vita», appunto.
E lui non si sa quanto sia consapevole della missione di cui è investito, quella di avvicinare la vita agli esseri viventi, di rendere intellegibile l’impossibile da spiegare. Lui lo fa, perché questo dovrebbe fare la letteratura. Vendere una, dieci, cento o un milione di copie non è più importante, lui ormai è Stephen King, nel bene e nel male.
Va detto che lui non si aspettava di diventare Stephen King. Il suo primo romanzo, «Carrie», alla fine degli anni ’70 fu venduto a una minuscola casa editrice per la miseria di 2.500 dollari. Un giorno il suo agente lo chiamò per dirgli com’erano andate le vendite e quanto gli spettasse in qualità di autore. All’inizio King aveva capito che si trattava di una cifra a quattro zeri, e già ne era felicissimo. In realtà gli zeri erano cinque, lui aveva svoltato e la vita dentro una roulotte a fare l’insegnante malpagato nelle scuole pubbliche era finita. Per la gioia, quel giorno andò a prendere la moglie al lavoro. In mano aveva un regalo: un asciugacapelli. In seguito avrebbe dichiarato che, in quel momento, non gli era venuto in mente niente di meglio. Anche i geni fanno i loro errori. Veniali.
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