Letteratura
Elegie del risveglio, Alida Airaghi sulle orme di Rilke
Con il termine elegia nella letteratura greca e latina si indicano dei componimenti poetici che, diversamente dai modi dell’epica, usati per raccontare gesta storiche o leggendarie di eroi e altre figure emblematiche, hanno un tratto riflessivo e meditativo, a volte contenendo una lamentazione, funebre o amorosa e, più generalmente, mostrando un andamento del discorso introspettivo. Nella poesia del ‘900 un’interpretazione oltremodo alta di questa tradizione letteraria è rappresentata dalle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, scritte tra il 1912 e il 1922, e pubblicate nel 1923
L’opera di Rilke, all’interno di un’escursione poetica vastissima e complessa, gravida di significanti letterari e filosofici, di significati e di rimandi simbolici, di strofa in strofa svolge una critica alla condizione, o all’essenza, dell’umanità, al limite razionale, al filtro della coscienza, a cui è in qualche modo connessa, alla semplificazione culturale da cui è attraversata, ben al di là di una contestazione romantica della società moderna, omologante e massificata, borghese e mercantilista, che pure è implicitamente presente nel testo. Il grande scrittore praghese sembra voler mettere in risalto il rischio, e il dramma, forse connaturato alla sfera dell’umano, di una relazione parziale, incompiuta, ovvero di riflesso, con la verità e con la libertà.
A questo riguardo appare esemplare e significativo un passaggio dell’ottava elegia, che riportiamo nella traduzione di Maria Grazia Marzot:
Sempre volti al creato, vediamo
solo in esso il riflesso dell’essere liberi,
da noi offuscato. O se un animale,
di quelli muti, ci penetra calmo con lo sguardo.
Questo è il destino: stare di fonte
e nient’altro che questo e sempre di fronte.
Nelle Elegie duinesi la figura ricorrente dell’angelo, del resto, è una sorta di contraltare, di figura che simboleggia la bellezza e la grandezza che esulano dall’esperienza accessibile agli esseri umani. E, come a voler suggerire la necessità di un cambio di prospettiva, di un ribaltamento della direzione del pensiero e della percezione, utile a integrare e a completare la visione, nella memorabile chiusa dell’opera si concepisce una felicità discendente e paurosa, nonché, proprio per questo, liberatoria e coraggiosa:
E noi, che pensiamo alla felicità
come a qualcosa che sale, sentiremmo
l’emozione, che quasi ci sgomenta,
di quando una cosa felice, cade.
E se Rilke nelle Elegie duinesi suggerisce che anche l’amore può essere un limite alla completezza e alla trasformazione della conoscenza (“Gli innamorati, se non fosse che l’uno/ blocca la vista all’altro”), Alida Airaghi in una poesia delle sue Elegie del risveglio (Nulla die, 2022; Sigismundus, 2016) – opera di ispirazione filosofico-concettuale e dalla versificazione declinata secondo un ritmo narrativo, discorsivo, agile –, sia pure in uno scenario non meno depurato dalle illusioni e dalle consolazioni fallaci di quello rilkiano (“abbiamo esplorato/ ogni abisso e mistero, sbugiardato gli inganni.”), sovverte lo scenario e immagina, con uno slancio forse non privo di una componente provocatoria, con uno sguardo in cui potrebbero coesistere l’idea e l’ombra del significato proposto, una forma di amore che estende la capacità di sentire e accogliere il mondo e che trasferisce soggettività alla materia:
Quello che fuori non li interessava
diventa loro in un istante. Tanto si espande
in chi ama il sentire, che cielo
erba segnali stradali si imprimono
in dissolvenza, scenario
irrilevante – o necessario. E l’albero
la sedia il portacenere spariscono,
per poi riaffacciarsi imperiosi,
decisi a ribadire «ci siamo,
e testimoni potremmo se richiesti
assolvere o accusare».
Gli oggetti, i silenziosi complici,
le congiuranti spie
di incontri, abbracci,
promesse imperiture.
Poesia intensa come poche altre quella di Alida Airaghi. Non ossessionata come troppa poesia italiana di oggi dall’invedenza dell’ego, l’io ha perso ogni fiducia di giudice e guarda le rovine degli egoismi intrecciati, le distruzioni degli ego che non riescono a farsi io se non annientando tutto ciò che si trovano davanti — invece di guardarlo e amarlo.