Letteratura
E poi?
Quando Dino Buzzati scrive Il grande ritratto – forse il meno noto dei suoi romanzi – è il 1960.Eppure si tratta di un testo di preoccupante attualità.
In un centro di ricerca lo scienziato Endriade ha realizzato una macchina pensante dotata di emozioni, sentimenti e coscienza umana. Il suo nome è Laura ed è stata progettata con la stessa struttura interiore della donna amata da Endriade e ormai morta: un modo per eternare un ricordo, una maniera per superare i limiti naturali imposti dall’esistenza.
Solo un problema fa inceppare la straordinaria creazione: la macchina che parla, pensa e sente non ha un corpo e questa mancanza è la sua dannazione, è la costante condanna a vivere in un eterno, insoddisfatto desiderio.
Non sono Laura, non so chi sono, non ne posso più, io sono sola, sola nell’immensità del creato, io sono l’inferno, io sono la donna e non sono la donna, io penso come voi ma non sono voi … io desidero la carne io desidero l’uomo … che mi stringa … io lo so, non c’è nell’universo un solo essere che possa fare l’amore con me.
La creatura di Endriade non casualmente si chiama Laura, la donna di Petrarca, l’emblema del desiderio, la fiamma che accende nel poeta il dramma della scissione, della lacerazione interiore. Ma se nel Canzoniere è Petrarca a soffrire perché gli impulsi del corpo lo allontanano dall’elevazione dello spirito, nel romanzo di Buzzati, invece, è la donna/macchina a straziarsi e non certo perché costretta a una scelta tra lo spirito e la carne, tra anima e corpo – come Petrarca, vincolato ai canoni culturali del Medioevo – ma, piuttosto, perché è impedita nella scelta di assecondare le sue pulsioni.
Certo il fascino della abilità di Endriade è grande: come non ammirare la forza demiurgica che riesce a incapsulare in strutture algoritmiche emozioni e pensieri?
L’uomo ha da sempre voluto somigliare a Dio, ci sta riuscendo, sta copiando anche l’atto creativo.
Il grande ritratto ha una forza etimologicamente apocalittica, cioè, disvelatrice. Con sensibilità profetica Buzzati ha previsto uno scenario non così assurdo e non molto lontano, ormai. Siamo tutti travolti dall’ebbrezza di questo trionfo tecnologico e ci immergiamo entusiasticamente nel flusso infinito delle applicazioni della scienza, apologeti del nuovo. È ovvio. Non può che essere così. Viviamo il nostro presente, godiamo del successo che la nostra intelligenza ha ottenuto. E, soddisfatti, ne celebriamo i vantaggi; abituati alle semplificazioni, ci ripetiamo: “certo se sto usando un PC, vuol dire che non partecipo a un rogo di streghe!”.
Il nostro occhio, allenato da secoli di progressismo positivistico, ormai vede solo il bicchiere mezzo pieno: ma il fatto di non volerlo guardare, non fa certo sparire il bicchiere mezzo vuoto!
In una poesia dal tono molto polemico, Montale esaminando la presunzione del primate a due piedi che ha ominizzato il cielo e sacralizzato se stesso, esprime l’amarezza per la perdita del sogno, per la caduta di ideali alti, ad opera di una società che ha voluto esaurire il senso solo entro i confini del reale, escludendo o svilendo ogni impeto ideale, in nome dei nuovi epistemi.
Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
(E. Montale, da Satura, 1971)
Buzzati, invece, con il suo ironico, inimitabile stile, ai transumanisti ansiosi di sfondare le Colonne d’Ercole del possibile, sembra porre un quesito: e poi?
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