Letteratura
Duecento anni di “Infinito”
Leopardi scrisse l’ Infinito nel 1819; Pietro Citati ci ricorda- nel suo bellissimo libro Leopardi– che fu l’anno più terribile della sua vita: mesi di disperazione, di quasi cecità, di cagionevoli condizioni di salute, di impossibilità di pensare, di tentativi di fuga dalla prigione di Recanati, di atroce solitudine. L’insorgere della malattia alla vista aveva, da marzo ad agosto del 1819, tolto ogni uso degli occhi al poeta recanatese.
Ma la facoltà di sdoppiamento e di duplicità di Leopardi era immensa: ne l’ Infinito non c’è traccia del dolore, ma una dolcezza, una soavità, un distacco, un’indifferenza, un candore intellettuale, che egli non raggiungerà mai più nella sua vita.
L’ Infinito per Leopardi non aveva fondo; era una sensazione irraggiungibile, era difficile poterlo esprimere. Tutto ciò suscitava in lui malumore, scontentezza, angoscia. Non sapeva quale strada seguire per portarlo alla luce (passim Pietro Citati Leopardi Mondadori da pag.174-185).
Era, come è noto, uno studioso ed estimatore di Pascal, dal quale aveva attinto che la vera conoscenza è quella del cuore: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce; il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”. L’uomo si perde inabissato nell’infinita immensità; è sperduto sulla terra, che appare un punto, in confronto dell’immenso giro che compie il sole.
L’uomo vive in questa angusta prigione; è sballottato, come naufrago nel vasto mare; brucia dal desiderio di trovare un assetto stabile, una base sicura.
Pascal introdurrà questa riflessione nella sua opera Pensieri, sotto il titolo di sproporzione
(Roberto Filippetti Leopardi e Manzoni Il viaggio verso l’ Infinito capitolo 4 Sproporzione: da Pascal a Leopardi pagina 37 e seguenti).
Ungaretti sostiene che l’ispirazione a l’ Infinito Leopardi l’abbia avuta proprio da Pascal, secondo cui “il silenzio eterno degli spazi infiniti provoca lo spavento” (Quando Leopardi copiava Pascal- confronto tra Ungaretti e Bigongiari Corriere della sera di lunedì 8.09.2008 Giorgio De Rienzo). E dunque Leopardi, quando scrive ne l’ Infinito ”interminati spazi e sovraumani silenzi io nel pensier mi fingo ove per poco il cor non si spaura”, avrebbe attinto tali versi proprio da quelli di Pascal.
Ma è dichiarata la stima e l’ammirazione per il filosofo francese. E’ infatti annoverato nello Zibaldone tra “i geni sommi, scopritore delle più sublimi profonde ed estese verità”( Zibaldone 1348-49).
Mentre la noia e l’inquietudine Pascal la risolve nella scoperta dell’Assoluto, identificato con Dio, Leopardi, di converso, solo nella poesia vede la tenera guarigione ai suoi supplizi interiori.
La differenza fra i due è ben delineata da un grande critico letterario, Carlo Bo:C’è un Leopardi che ad un certo punto butta via tutti i libri su cui aveva esercitato la sua precoce fame di conoscenza e si trova sul colle de l’ Infinito a sfidare un Dio che era ben diverso dal Dio che i genitori avevano cercato di portarlo ad adorare e temere. E’ con questo Dio che a nostra volta dobbiamo ingaggiare un confronto capitale , il poeta con il suo genio e noi soltanto attirati dalla purezza cristallina della sua poesia…la memoria di Pascal, la forza del suo stupore e della sua meraviglia guidano Leopardi. Ma questa ammirazione e stupore non lo hanno trattenuto dal battere la strada di un Dio ignoto e quindi più esigente di quello che sarebbe apparso come guida a Pascal”(Leopardi sfida a Dio sul colle de l’ Infinito Carlo Bo Corriere della Sera del 13.12.2001).
Per concepire l’ Infinito Leopardi aveva bisogno di un limite, di un carcere immaginario, di una dimensione di chiusura per la sua mente ed il suo spirito.
Qualcuno sostiene che sul monte Tabor la siepe non sia mai esistita (lo avrebbe insinuato proprio Ungaretti); ma il problema va inquadrato sul piano della creazione poetica per rammostrare un Infinito, un altrove.
Leopardi sviluppò l’idea della siepe-carcere, affinchè potesse lavorare l’immaginazione, la vera grande linfa ispiratrice della sua poesia.
L’infinito è in primo luogo incompiutezza, incertezza, evanescenza, qualcosa di inafferrabile, che scappa via, che lo avverti, ma solo sul piano dell’illusione magica, dell’eterea immaginazione.
Egli lo spiega nello Zibaldone:” alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La ragione è la stessa, cioè il desiderio de l’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione ed il fantastico sottentra al reale. L’anima si immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre: tutto si nasconde e va errando in uno spazio immaginario ed ella si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario”(Zibaldone 170-171).
L’infinito si può scorgere, non può essere visto, si può vagamente sentire, non udire. Non si può cogliere, percepire.
Allora lo avvertiamo in una situazione indefinita che Leopardi descrive nello Zibaldone in una campagna arditamente declive, in modo che la vista non giunga in fondo alla valle; in un viale di cui non arriviamo a individuarne la fine; o in una torre, che pare innalzarsi sola sull’orizzonte: nel cielo contemplato attraverso una finestra, una porta: o nella luce del sole e della luna, veduta da un luogo dove non se ne scopre la sorgente: quando essa non si distingue, come attraverso un canneto, una selva, o i balconi socchiusi; nella veduta di un andito, o in una loggia; o confusa con le ombre, come sotto un portico o fra le rupi e burroni di una valle o sui colli scorti dalla parte dell’ombra.
L’infinito è anche nella vastità del sole o della luna in una campagna aperta, nel cielo puro o pieno di piccolissime nuvole: in un salone ampio e disteso, da cui scorgiamo appena i muri estremi; nell’interno delle stanze, guardate dalle strade o attraverso le finestre aperte. O nel profumo delle rose del maggio odoroso, o nella bellezza di Silvia per la quale “lingua mortale non dice quello che sentiva in seno”.
L’infinito si ricorda anche in un canto udito da lontano, che pare esserlo da lontano, che vada a poco a poco sfumando, o che l’orecchio perde nella vastità degli spazi: o un canto udito, in modo che non si veda il luogo da cui parta: un canto che risuona più di una volta, in una stanza dove non siamo; un canto campestre di contadini che non si vedono.
L’infinito è nel fragore del tuono in aperta campagna, o nello stormire del vento quando freme, confusamente in una foresta o è udito da lontano, senza che si veda l’origine; o l’eco nell’oscurità; l’orologio della torre sentito dal letto di una camera con le persiane chiuse, il canto di un contadino quando è finita la festa.
E’nella notte che evoca la luna:”dolce e chiara è la notte e senza vento e queta sovra i tetti ed in mezzo agli orti posa la luna e di lontana rivela serena ogni montagna…”(La sera del dì di festa).
O nel canto dell’artigiano che immalinconisce il Poeta:”per la via odo non lunge il solitario canto dell’artigian che riede a tarda notte, dopo i solazzi al suo povero ostello e fieramente mi stringe il core”.
O anche nell’inappagato amore che prova il Poeta:“quando novellamente nasce nel cor profondo un amoroso affetto languido e stanco insieme con esso in petto un desiderio di morte si sente. Come non so: ma tale d’amor vero e possente è il primo effetto”(Amore e morte).
L’infinito rappresenta una tendenza fondamentale dell’animo umano, con la sua scoperta tocchiamo la poesia che si sostiene di immagini indefinite.
L’infinito è nella ricerca nel desiderio.
Desiderio:etimologicamente significa mancanza di stelle. L’uomo è propriamente colui che desidera, che avverte la mancanza delle stelle: da quando l’uomo alzò lo sguardo verso il cielo stellato ha sempre riconosciuto, con stupore, di essere pieno di questa sete struggente. Costante è questa direzione dello sguardo verso il luogo della pienezza ultima. Proprio Leopardi ce lo rammenta nelle Ricordanze: “delle sere io solea passar gran parte mirando il cielo”.
Ne” l’ Infinito-ha scritto Natalino Sapegno– c’è il ritrovamento di una condizione di intatta felicità, che si porge all’animo nei rari momenti in cui esso riesce a sottrarsi al freno della riflessione ed al tarlo della coscienza adulta ed a riportarsi in quel mondo di libera e calda immaginazione che è proprio dell’infanzia, il che può avvenire solo grazie alla rimozione degli elementi razionali e di oblio del presente e della realtà.
Appaga il sentimento del poeta una commozione vissuta nel ricordo e nell’illusione, nella dolcezza dell’abbandono che è pertanto un temporaneo naufragare nel mare dei sogni infantili nella compiuta e consaputa dimensione della finzione”.
Al poeta è caro l’ermo colle e la siepe che impediscono la vista dell’orizzonte più lontano. Ammirando(immaginando) seduto gli interminati spazi al di là della siepe, nella mente egli si raffigura silenzi sovraumani e profonda quiete che smarriscono il cuore nella paura.
Secondo Emanuele Severino il verbo fingere conferisce lo stato dell’illusione e dell’immaginazione pura: il poeta lo riconduce al significato di formare, foggiare.
Fingere non indica l’ingannare ed il nascondere. All’interno dell’illusione (io nel pensier mi fingo) significa che quando la siepe non gli fa vedere gran parte dell’ultimo orizzonte, allora nel suo pensiero si formano, si foggiano gli spazi ed i silenzi infiniti.
Ove per poco il cor non si spaura, non è l’angoscia di chi si sente in mezzo al nulla: manca ancora un poco perché questa paura si produca. Essa sta nella dimensione del timore dell’uomo che viene a trovarsi di fronte all’Assoluto, a Dio, all’ Infinito, Eterno, che provoca irreversibilmente uno smarrimento, una paura (Severino In viaggio con Leopardi La partita sul destino dell’uomo Rizzoli pag.33-34).
I timori di Leopardi non assalgono né l’io, né il pensiero, ma il suo cuore, scrive Citati. Non riesce a sopportare l’impossibile pensiero dell’infinito, che per un istante lo ha avvertito. Assume nel ricordo l’eterno, senza essere avvolto dal passato, dal presente e dal futuro. Egli chiude nella mente quella goccia di infinito, per un istante, poi abbandona quel culmine lasciandosi alle spalle interminati spazi e sovraumani silenzi.
Ma non appena sente il rumore ed il fruscio del vento, è teso a compararlo all’infinito silenzio di quegli spazi e corre alla mente l’eternità, con il passato delle morte stagioni ed il suono vivo di quella presente.
Lo stormir del vento dunque rompe l’immaginazione: la voce del vento cancella la concentrazione nell’assoluto, strappa la mente dagli abissi in cui era sprofondata grazie all’illusione di prima (io nel pensier mi fingo).Con la comparazione c’è il richiamo dell’eterno, dell’immensità, nella quale affonda il suo pensiero che gode lo smarrimento piacevole nel mare dell’Assoluto. L’immensità del mare ove egli annega e naufraga è l’indefinito, oltre il quale l’uomo non può giungere.
Per Severino vi è una diversa lettura: Leopardi non è come Pascal che ancora la sua noia ed inquietudine alla soluzione beatificante dell’Assoluto e del Dio ritrovato. Non è dolce il suo naufragare, bensì spaventoso, soffocante, perché egli ritrova, di converso, il nulla.
Non a caso egli adopera la parola annegare che riflette quella latina necare, uccidere, che seppure elimina la morte, fa riaffiorare il nulla.
Il sostantivo naufragio, significa lo spezzarsi, frangere della nave. Il naufragio può essere dolce ,solo se la nave che si spezza accolga i frammenti dell’eterno. Qui si coglie l’attimo dell’ Infinito, che diventa illusione che rimuove il nulla.
Si naufraga nel mistero. Siamo all’esperienza del numinoso, dell’ineffabile: il corpo si abbandona ad una dolcezza che spegne il pensiero, i sensi, la ragione, si compie lo smarrimento.
Eros dio dell’amore e Thanatos, la morte si uniscono non nel suicidio del corpo, ma nel riposo del desiderio, non nell’istante della morte, ma nell’abbandono di una dolcezza che travolge. Il mare invade la scena e porta con sé il desiderio della vita, il piacere (Carlo Raimundo Idea e dramma dell’ Infinito in Leopardi).
Proprio qui Leopardi abbandona Pascal: viene lasciato solo il filosofo francese nell’affannosa ricerca di Dio. Per Leopardi invece solo la poesia può salvarci.
Ha scritto Giovanni Macchia:” La storia della poesia moderna è la grande vittoriosa storia di un naufragio nell’attesa del nuovo ed è retta sulla corrispondenza tra il cielo e la terra, tra il silenzio degli astri e la voce della natura, tra l’inaccessibile e ciò che si vede, tra il contingente e l’eterno, tra le stagioni morte e la presente e viva. Non si può fare poesia del silenzio; si può fare poesia se quel silenzio lo si agganci all’immagini della terra. Allora la poesia diventa l’unico e possibile paradiso rilevato”(Giovanni Macchia La paura di Pascal vinta dalla poesia Corriere della sera 16.12.1980).
L’infinito descrive la notte nella quale il poeta sulla mesta landa nel purissimo azzurro vede dall’alto il fiammeggiar di stelle, cui da lontano il mare fa da specchio e tutto il mondo brilla di scintille per l’universo sereno (La Ginestra).
L’infinito del giovane favoloso è il cuore della poesia.
Biagio Riccio
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