Letteratura
Due parole con Cantagallo, lo scrittore forastico che contempla i fagiani
Incontriamo Cantagallo in un parco di una città di provincia del nordest. Ha scelto lui il luogo dell’appuntamento. Ci ha convocati dopo aver letto quanto abbiamo riportato sulla vicenda di Enrico Piras, ignorando che il post non era altro che un mero copia-e-incolla di un racconto autobiografico dello stesso Piras. Evidentemente le traversie dello scrittore ferrarese-sardo lo hanno colpito: simpatia di un grafomane padano verso un altro incallito grafomane padano?
Abbiamo deciso di incontrare Cantagallo perché la sua fama di scrittore schivo, forastico, timido come un daino, amante delle nebbie planiziali e dei boschi di media quota, lo precede. In molti hanno sentito parlare della sua magna opus, la fantomatica LFNR (un acronimo? Un indovinello? Un colto riferimento a chissà quale tradizione cabalistica?), ma nessuno o quasi ha avuto l’occasione di leggerla. Si dice che sia lunga oltre duemila pagine, che l’autore ci stia lavorando con la stessa acribia di D’Arrigo con Horcynus Orca, o di Occhiato con Oga Magoga, che il libro in realtà non sia un romanzo esoterico, ma una raccolta di leggende della Carnia, in virtù dell’amore dell’autore verso le tradizioni folkloriche alpine. Si dice anche che un paio di editori milanesi abbiano ricevuto, il primo nel 2018 e il secondo nel 2019, o forse in pieno lockdown, degli scartafacci illeggibili, e che un’anima pia, una psichiatra toscana, si sia presa la briga di trascrivere il tutto su un Mac.
Nel parco Cantagallo arriva puntualissimo. Indossa un lungo cappotto, calza scarponi neri, e in testa ha un berretto di lana. Potrebbe sembrare un abitante di Tolmezzo o di Merano, ha i tratti somatici duri del montanaro germanico, o slavo. Gli chiediamo se possiamo fotografarlo, se possibile con la Repubblica del giorno tra le mani, ma lui dice di no, odia essere fotografato, e dice che la fotografia non ruba l’anima, come sostenevano i polinesiani, ma la consuma. “È possibile almeno rivolgerle qualche domanda?” chiediamo. Lui annuisce. “E registrarla?” e non appena abbiamo formulato la richiesta Cantagallo scrolla la testa: niente registrazioni, solo appunti. Sembra che almeno una delle tante leggende che circolano su Cantagallo, quella sulla sua tecnofobia, sia vera. La conversazione è relativamente breve, Cantagallo ha fretta e deve prendere un treno, e pertanto abbiamo deciso di offrire ai lettori le minute del breve vis-à-vis, con lo stesso spirito con cui, due secoli fa, gli esploratori francesi o inglesi proponevano ai borghesi sbalorditi di Parigi o Londra manufatti africani o fossili dal Borneo.
T – Cantagallo, lei esiste dunque?
C – Mi sembra evidente.
T – Lei è un collettivo, o una sola persona?
C – Mi contraddico, ma a differenza di Whitman contengo solo me stesso.
T – Ha intenzione di continuare con le risposte epigrammatiche?
C – A domande secche, risposte secche.
T – Un’ultima domanda secca: lei ha davvero scritto LFNR, romanzone di duemila e rotte pagine?
C – Sì, ma LFNR è solo un acronimo. E non è lungo duemila pagine, molto meno per fortuna.
T – Di cosa parla?
C – Di oggi, anche se si rifà ad antiche cronache. Della locura, per citare “Boris”. Locura che imperversa in questo paese, ma in un modo abbastanza divertente, spero, e onesto intellettualmente. Parla del maschilismo e del classismo che ossificano la nostra società, del razzismo e dell’omofobia dilaganti, dell’antisemitismo… Sa, ora lei mi vede sbarbato, ma da giovane portavo la barba lunga, rossa, e mi prendevano spesso per ebreo…
T – Lei è ebreo?
C – Forse lo era un trisavolo. Però io sono cristiano, come mio nonno. Le dicevo, da giovane mi prendevano tutti per ebreo, al ghetto di Venezia un paio di volte mi hanno fermato dei turisti da Israele chiedendomi informazioni in ebraico. Una volta ero in una città di destra della Pianura padana, e un ragazzo mi ha urlato: “N**** al forno, ebrei per contorno”; un’altra volta, su un treno regionale per Milano, un paio di giovanotti mi hanno chiesto ridendo cosa pensavo dell’Olocausto. C’è ancora tanto antisemitismo, in Italia.
Mi picco di conoscere abbastanza bene l’Italia. Da giovane ho bazzicato certi giri snob, ma soprattutto ho avuto modo di frequentare molti ambienti diversi, da nord a sud. Sa, prima della pandemia io trascorrevo buona parte della settimana lavorativa sui treni – un ecologista che per motivi professionali necessita di spostarsi non può fare altrimenti – e dopo quasi vent’anni di vita così credo di conoscere abbastanza bene il nostro paese, le sue plaghe.
T – Davvero basta macinare chilometri per conoscere l’Italia? E allora perché i camionisti non scrivono libri?
C – Questa sua domanda tradisce un certo classismo, sa? Io sono convinto che i camionisti abbiano molto da raccontare sull’Italia, e in effetti con capo-treni e tassisti mi faccio spesso ottime chiacchierate. Ha mai visto “Camionisti in trattoria”? Lo veda! In ogni caso se forse i camionisti non scrivono libri sull’Italia è perché nessuno gliene dà l’opportunità. Magari un camionista di, che so, Pordenone, ha un libro nel cassetto sulle sue peregrinazioni attraverso l’Italia, ma non si azzarda a tirarlo fuori perché teme pre-giudizi come il suo. I viaggiatori sono tesori di storie straordinarie. Una volta un agente di commercio mi ha raccontato di aver visto una sirena emergere dalle acque dell’Adige… se era folle, almeno era poeticamente folle, non come certa gente oggi in circolazione.
T – Lei non crede nel valore dell’istruzione?
C – Certo! Ma sono tanti i modi per imparare. Si può imparare la statistica o la storia romana in un’aula universitaria, si può imparare lavorando in fabbrica o ascoltando gli anziani pastori. È per questo che mi ha colpito la storia di Piras…
T – Non è fiction la sua, è un racconto autobiografico. Ha solo cambiato qualche data e due o tre nomi.
C – Lo sospettavo. Puzzava di vero.
T – La sua opera si ispira a quella di Horcynus Orca?
C – Ho letto Horcynus Orca, da ragazzo. Bello, possente. Non mi ha ispirato, ma l’ho tenuta in considerazione mentre scrivevo. Solo che, vede…
T – Dica…
C – C’è un problema in Italia. Se un romanziere ambienta la sua opera, che so, nel dopoguerra, o negli anni Settanta, tutti (critici, lettori, giornalisti) la trattano come se quell’opera stesse parlando davvero di quegli anni. Come se fosse un documento, una testimonianza, un grande affresco bla bla bla di quel periodo. Questo è il risultato dell’ossessione per l’autenticità che c’è in questo paese. Per parlare dell’Italia di oggi, uno scrittore ha due sole possibilità: o ambienta l’opera nel presente, con il rischio di suonare falso o di beccarsi una bella querela, oppure nel passato più remoto, o meglio ancora in un’altrove remotissimo. Cosa che ho fatto io, come aveva fatto un po’ di anni fa quel genio di Eco.
T – È vero che ha mandato degli illeggibili manoscritti a un paio di editori di Milano?
C – No. Avevo dato le bozze a una ragazza, perché me le trascrivesse, lei però ha rifiutato il lavoro alla fine, diceva che la mia grafia era terribile, e non so come sono circolate. La ragazza non era milanese, bensì siciliana.
T – Come fanno delle bozze ad arrivare dalla Sicilia a Milano?
C – Non lo so, considerando che non c’è ancora neanche il ponte sullo Stretto…
T – Ma le sue bozze come erano arrivate in Sicilia?
C – Io vado spesso in Sicilia, la Sicilia è il centro del mondo anche se i siciliani non lo sanno. Le bozze, dunque, erano arrivate con me, in treno e in ferry-boat.
T – Lei Cantagallo è di destra o di sinistra?
C – Di sinistra. Sinceramente di sinistra. Però questo non vuol dire che io debba sempre dare ragione ai politici di sinistra. E su alcune cose pratiche la destra ha ragione.
T – Per esempio?
C – La difesa delle piccole partita IVA. Non solo nell’alta Italia, ma in tutto il paese ci sono un sacco di forfettari e micro-imprenditori che si ammazzano di lavoro per mandare avanti la loro attività. Non sono evasori, sono solo persone che sopravvivono: grafici, giovani avvocati, comunicatori, designer, creativi, ingegneri, startupper ecc. La sinistra non può rappresentare solo gli statali e i pensionati e certi segmenti della borghesia, del ceto medio riflessivo, ma tutto il popolo. E il popolo è fatto anche di metalmeccanici, architetti precari, i giovanissimi dei Fridays for Future, baristi in nero o in grigio, ragazze madri, studenti universitari spremuti come limoni, giornaliste a due euro ad articolo, muratori, gente dei call-center, insegnanti, riders, ricercatrici sottopagate, disoccupati, commesse, beneficiari del rdc. Dobbiamo uscire dalla logica partita IVA = evasore, perché è falsa. Chi ha i soldi non apre un’impresetta, non vende i suoi servigi, ma scommette sulla finanza e sul mattone, sulla cementificazione mostruosa che sta divorando ettari su ettari di boschi, prati, campi, dal Veneto alla Sicilia.
T – Lei è a favore del rdc?
C – Con alcuni correttivi, sì. Misure del genere ci sono in tutta Europa, i “moderati” devono smetterla di accanirsi sulla povera gente. Sa che faceva mio nonno paterno, da ragazzino? Cuoceva mattoni. Ecco. Credo che il 90% degli italiani abbia almeno un nonno così.
T – Lei prima ha citato Boris, noto telefilm umoristico. Questo suo libro è umoristico?
C – Molto, ma fa ridere solo chi è oppresso, sfruttato, o semplicemente sottovalutato. Un’amica che l’ha letto mi ha detto che più di una volta ha riso sino alle lacrime. Un’altra persona mi ha giurato che il libro l’ha aiutata a uscire dalla depressione. Forse esagerava, ma non credo. Lei conosce per caso l’opera di Ernesto de Martino?
T – Certo.
C – Ecco, il mio romanzo narra di una riscossa degli oppressi. Un’armata Brancaleone, per così dire, una banda di sfigati che non si rassegna al suo destino di minorità. C’è chi crede nel potere taumaturgico dei mercati, e chi nella magia o persino nei miracoli, ecco. La magia serve a chi non può permettersi i corsi di business leadership in qualche università privata.
T – Qualche editore l’ha letto?
C – Pochissimi. Uno, di quelli importanti, me ne ha dette di cotte e di crude.
T – Cioè?
C – Mi ha fatto capire che è troppo caustico, troppo critico. Dice che scrivo bene, che ho tanta cultura letteraria bla bla bla, che padroneggio la lingua bla bla bla, però il libro non piacerebbe alle categorie chiave di lettori. Ok, io capisco che l’agiata dermatologa cinquantenne, o la prof di lettere in pensione, o l’avvocato di grido difficilmente si appassioneranno al mio libro. Però leggono anche tanti precari, tanti studenti, tante persone che in Italia sono discriminate solo perché hanno un reddito medio-basso, perché hanno un colore diverso della pelle, o magari un orientamento sessuale diverso. O perché sono donne che non si rassegnano alla triade madre-moglie-badante. Anche loro avranno diritto a una rappresentanza letteraria, che non sia il solito dramma cupo, il classico romanzo straripante di strazio e di pathos, o il giallo che ormai è un escamotage per fare sociologia a buon mercato? Si può essere oppressi senza essere sconfitti? Sfigati senza essere dei perdenti perpetui? Vittime senza essere inermi agnelli sacrificali?
Ci pensi. Gran parte degli editori, ormai, pubblicano solo libri-fotocopia, come diceva Piras. I romanzi intelligenti, innovativi, sono pubblicati, nove volte su dieci, da editori piccoli o persino minuscoli, magari locali, e che quindi sono distribuiti male, poco recensiti ecc. E poi ci stupiamo che la gente non legge. Io ho fatto un sondaggio con diversi amici, persone colte, donne e uomini, etero e omo, e nessuno mi ha parlato bene di autori italiani contemporanei. Leggono quasi solo romanzi americani, francesi, inglesi, israeliani, italiani ma d’annata. Però molti grandi editori si arrabbiano, e mi ricordano quella battuta di Brecht: “Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”. I lettori non leggono? È colpa dei lettori, della TV, del web, dei videogiochi, dello Stato… e se fosse anche colpa degli editori?
T – Ma se agli editori italiani il suo libro purtroppo non piace, in che modo vuole raggiungere il pubblico?
C – Non ne ho idea, può pure rimanere nel cassetto per quello che mi riguarda. Sappia che con i libri non si arrichisce. Proverò a pubblicare intanto alcuni dei miei racconti fantastici.
T – Ce ne potrebbe far leggere qualcuno in anteprima?
C – Meglio. Le darò l’indirizzo email di un mio conoscente scandinavo, Tancredi Karlsson. Lui colleziona leggende urbane, rectius: investiga su di loro. Vive non lontano da qui, è lui la mia fonte per queste cose. Ora mi scusi, devo correre, tra poco parte il treno…
T – Ultima domanda: davvero lei vive in un bosco?
C – A un tiro di schioppo da un bosco molto antico. Nulla ispira di più che vedere un fagiano correre nella luce del pomeriggio. O dei daini brucare sereni.
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