Letteratura
Don Firmi
Ci doveva essere un motivo importante, se il parroco l’aveva convocata urgentemente in canonica, alle otto di sera, quando non era in programma nessun incontro del consiglio pastorale. Luigia si era già messa in tenuta da notte, aveva finito di cenare e si apprestava a godere dell’imperdibile appuntamento quotidiano con la serie televisiva prediletta. Un po’ allarmata, un po’ infastidita, si sfilò la vestaglia e guardandosi allo specchio del bagno dedicò alla sua faccia sessantenne qualche ritocco discreto, prima di rivestirsi con la tranquilla decenza che le era propria. Da quando si era messa in pensione dalla scuola, il volontariato nelle istituzioni cattoliche era diventato fondamentale motivo di conforto, impegno e gratificazione agli occhi della propria coscienza e della comunità cui apparteneva. Perché vivere, infatti, se non si è di aiuto al prossimo?
Dal suo condominio alla chiesa, nel centro del paese di San Biagio, doveva percorrere mezzo chilometro lungo la strada principale, poco illuminata e priva di marciapiede, attraversata da rare automobili, nella nebbia nordica della quasi notte novembrina. In meno di dieci minuti, a passo svelto e prudente, si ritrovò davanti alla porta laterale che immetteva direttamente in sacrestia. Da fuori provenivano voci femminili confuse, e quella più grave di don Eligio. “Non ha chiamato solo me, quindi”, rifletté, sospesa tra curiosità e trepidazione.
Nella saletta delle riunioni, intorno al tavolo, sedevano tre attive collaboratrici della parrocchia: Antonietta, Mariangela e la più giovane Tiziana, che da qualche mese seguiva con fervore il gruppetto degli adolescenti. “Scusate il ritardo”, sentì il dovere di giustificarsi Luigia, avvertendo lo sguardo indagatore e appena rimproverante del sacerdote. “Stavo per andare a dormire, mi sono dovuta cambiare in fretta”. “Bene bene”, iniziò assorto il prete. “Ho ritenuto opportuno comunicare a voi per prime, mie preziose coadiuvanti, la notizia che ho appreso stamattina dal nostro Vescovo”. Sostenuto e forbito, nel suo consueto eloquio privo di qualsiasi inflessione dialettale, don Eligio si calzò meglio gli occhiali sul naso, mentre le donne lo osservavano con apprensione. “Dunque, dopo tredici anni al servizio di questa collettività, tredici anni densi di lavoro, amicizia e reciproca dedizione; dunque dicevo, dopo tredici anni sarò trasferito. Ovviamente, domenica durante la Messa lo annuncerò a tutti i fedeli”. Tacque, leggermente turbato, forse aspettandosi gli ah, oh, come, perché, quando, dove, delle sue interlocutrici. Che tacevano, invece: stupite, addolorate, imbarazzate. “E in quell’occasione, riferirò all’assemblea anche il nome del mio successore”.
“A noi lo può anticipare, per favore?”, domandò afflitta la veterana del quartetto, l’abbondante Antonietta, da poco nominata Ministra straordinaria dell’Eucarestia. Timorosa magari di perdere, con il sostituto, l’ambito privilegio conquistato. “Certo. Si chiama Don Firmi”. “Don Firmi? E di nome?”, insisteva lei. “Firmi è il nome di battesimo”, chiarì asciutto il parroco. “Di cognome fa Bua”. Le catechiste accennarono un sorrisino, vago e sommesso. “Bua come la bua dei bambini?”, volle fare la spiritosa Luigia. “È albanese. Ha 32 anni. Ha studiato al Seminario di Tirana, poi alla Lateranense di Roma. È bravo, preparato, e parla un italiano perfetto”. Don Eligio precisò infastidito, e aggiungendo “Volete sapere altro?”, congedò le sconcertate donne.
Il giorno successivo, prima del mezzogiorno, tutta la comunità di San Biagio sapeva di essere stata affidata alla cura spirituale di un prete straniero. Albanese. “Per albanese cosa si intende?”, chiedevano in molti. “Con la pelle scura?”. “Gli albanesi erano quelli che arrivavano coi barconi, aldilà del mare…”, commentavano altri. “Ma sono cristiani o musulmani? Confinano con la Turchia?”. Idee sconnesse, scarse cognizioni geografiche, timori dell’ignoto creavano nella gente sbigottimento e diffidenza. Luigia, che a lungo aveva occupato la cattedra di educazione tecnica alle scuole medie, provava a servirsi della sua esperienza pedagogica per convincere i compaesani ad accogliere con carità evangelica il nuovo venuto.
Quindici giorni dopo, a vederli vicini sull’altare, i due officianti tanto diversi – don Eligio maturo e robusto e don Firmi smilzo, il primo abbattuto l’altro animoso –, l’uditorio fu scosso da emozioni oscillanti tra attrazione, perplessità, fastidio, manifesta contrarietà. Terminata la cerimonia di insediamento, a cui aveva presieduto un importante monsignore della diocesi, si sprecarono nei bar, nei negozi, per strada i commenti più acidi, i pettegolezzi più fantasiosi. C’era chi compativa la magrezza del giovane sacerdote, dovuta a chissà quali stenti patiti in patria; chi si dichiarava soddisfatto che la sua carnagione fosse appena un po’ brunita, come dopo una vacanza al mare. Altri sostenevano che nessuno straniero si sarebbe mai potuto integrare del tutto nel tessuto sociale di un paese tanto diverso nella mentalità e nelle abitudini. Senza considerare il fatto che l’età di Don Firmi l’avrebbe potuto indurre a pericolose tentazioni sessuali, deviandolo dalla promessa di castità. Tuttavia, già nel corso delle prime settimane di servizio pastorale, il reverendo seppe creare intorno a sé un clima di larvata simpatia, che lentamente si intensificò, trasformandosi in affettuosa solidarietà, in fattiva partecipazione. Fu proprio Luigia ad adoperarsi generosa per stemperare l’ostilità più manifesta e immotivata dei compaesani. Metteva una buona parola in favore del pretino in ogni casuale colloquio, vantandone la disponibilità all’ascolto di qualsiasi situazione problematica dei parrocchiani. Lo accompagnava nelle visite domiciliari, lo aiutava a riordinare chiesa e canonica, soprattutto lo incoraggiava ad aprirsi, a confidarsi con lei: maternamente, disinteressatamente. Don Firmi le era grato.
Presto le famiglie notabili di San Biagio presero l’abitudine di invitarlo a pranzo, facendo a gara nel vantare le specialità gastronomiche locali. Il vino rosso delle colline, i funghi boschivi, e l’orgoglio di tutte le loro cucine: la torta sbrisolona, di cui Don Firmi (“ma togliete il Don, vi prego! chiamatemi semplicemente Firmi”) si mostrò da subito molto goloso. Il sindaco e la moglie, con le tre splendide bambine, si abbonarono alla sua presenza costante e discreta: il lunedì, dopo le fatiche della festività, e come inizio augurale della settimana. La loro divenne una consuetudine non del tutto spassionata, poiché sembrava opportuno all’autorità laica saggiare le opinioni e i suggerimenti dell’autorità religiosa sulle questioni della vita comune. I due uomini non si astenevano da qualche indiscrezione, qualche chiacchiera innocua, qualche spiritosaggine sui concittadini, che la bionda sindachessa sottolineava con gorgoglianti, ammiccanti risatine.
Luigia era un po’ gelosa di questa amichevole sintonia di Firmi con la massima carica del paese: anche a lei sarebbe piaciuto mostrare al parroco le sue abilità culinarie, averlo un giorno ospite nella sua cucina. Ma si rendeva conto che la solitudine in cui viveva avrebbe dato adito a malevoli sospetti, benché si ritenesse, alla sua età, inattaccabile da ogni possibile calunnia. Ma le altre signore, oddio, no! Non avevano i suoi scrupoli, e subissavano il sacerdote di attenzioni, di sollecite pressioni, proponendogli continui abboccamenti, privati e collettivi. Pretesti per appuntamenti pressoché quotidiani non mancavano: dalle discussioni sulle precarie condizioni economiche di alcune famiglie, ai meeting con psicologi-sessuologi-astrologi-sociologi-reumatologi- dietologi-allergologi di sostegno alla comunità, ai ritrovi conviviali dopo le messe vespertine. Don Firmi aderiva entusiasta a ogni iniziativa, sempre più magro e provato, tuttavia, da questa rutilante molteplicità di progetti da seguire, da questo sfarfallio cianciante di dame: quante mai avesse immaginato in precedenza di poter conoscere. Solerti e zelanti, catechiste e perpetue si offrivano alla cura delle anime del paese, ormai quasi più numerose delle stesse anime da seguire. Toccava a Luigia moderare il traffico delle pie donne frequentanti la sacrestia, e assolveva a questo incarico con severa puntigliosità, decisa a difendere il parroco da ogni eccessiva invadenza muliebre.
Perciò fu sorpresa, dopo quattro mesi dall’arrivo di Don Firmi, del silenzio insolito in cui era trincerata la canonica nel primo pomeriggio di un lunedì marzaiolo, giorno destinato al catechismo delle classi elementari. Impensierita (si fosse sentito male?) si avvicinò quietamente alla porta della saletta, scostandola appena per affacciarsi a controllare. Lui era lì. La guardò spaventato e implorante, al di sopra della spalla della signora che stava abbracciando: di schiena, fasciata in un tailleur grigio, irrigidita dall’improvvisa immobilità dell’uomo a cui era stretta, abbassò appena la testa, senza voltarsi. Luigia richiuse discreta e tacita il portoncino. Bionda così, elegante così, a San Biagio esisteva un’unica persona, audace e riprovevole.
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