Letteratura

Disegni sui muri, ricordando il colpo di stato in Argentina

24 Marzo 2018

Il 24 marzo 1976 la giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla destituì la presidentessa Isabel Martínez de Perón ed instaurò una dittatura che avrebbe tenuto in pugno l’Argentina fino al dicembre del 1983. In questo periodo più di 5000 dissidenti politici, studenti, giornalisti ed oppositori al regime sparirono tra le braccia del mare e nei centri di detenzione clandestina. Coloro i quali tentarono di denunciare i crimini perpretrati verso i propri cari – le madri di Plaza de Mayo – ne seguirono la sorte.

Julio Cortàzar, scrittore porteño in quegli anni esule a Parigi, dedica a chi si è perso uno dei suoi più bei racconti. Disegni sui muri fa parte della raccolta Tanto amore per Glenda, edito in Italia nel 1983 da Ugo Guanda Editore. Qui sotto riportiamo il testo in versione integrale perché sia bello e non solo necessario non dimenticare.

 

 

DISEGNI SUI MURI

Julio Cortázar

 

 

Tante cose cominciano e forse finiscono come un gioco, immagino che sia stata una felice sorpresa per te trovare il disegno accanto al tuo, l’hai attribuito al caso o a un capriccio e solo la seconda volta ti sei reso conto che la cosa era voluta e allora hai guardato a lungo sei tornato anche più tardi a guardare, prendendo le precauzioni abituali: la via nel suo momento più deserto, nessun furgone cellulare agli angoli delle strade intorno, avvicinarsi con noncuranza e mai guardare i disegni apertamente ma dal marciapiede opposto, o in diagonale, fingendo di interessarsi a una vetrina, sparire rapidamente.

Lo stesso tuo gioco era cominciato per noia, non era veramente una protesta per come andavano le cose in città, il coprifuoco, il divieto minaccioso di affiggere manifesti e di scrivere sui muri. Semplicemente ti divertiva disegnare coi gessi colorati (non ti piaceva il termine graffiti, tipica parola da critico d’arte) e di tanto in tanto andare a vederli o addirittura con un po’ di fortuna assistere all’arrivo del camion municipale e agli insulti inutili degli uomini incaricati di cancellare. Poco importava che non fossero disegni politici, il divieto abbracciava tutto, e se un bambino avesse osato disegnare una casa o un cane, li avrebbero ugualmente cancellati fra minacce e insulti. In città ormai non si sapeva bene da che parte stesse veramente la paura; forse per questo ti divertiva dominare la tua e scegliere ogni tanto il luogo e l’ora adatti per fare un disegno.

Non avevi mai corso pericolo perché sapevi scegliere bene, e nel tempo che passava fino all’arrivo dei camion della pulitura si apriva per te come uno spazio più pulito dove quasi trovava posto la speranza. Guardando da lontano il tuo disegno, potevi vedere che la gente vi gettava un’occhiata passando, nessuno naturalmente si fermava, ma nessuno anche si tratteneva dal guardare, e il disegno era forse soltanto una rapida composizione astratta a due colori, il profilo di un uccello o due figure abbracciate. Una sola volta hai scritto una frase, con gesso nero: Anche a me fa male. Non durò più di un paio d’ore, e quella volta fu la polizia in persona a farla sparire. Poi hai continuato a fare soltanto disegni.

Quando comparve l’altro disegno accanto al tuo, hai quasi avuto paura, all’improvviso il pericolo raddoppiava, qualcuno s’era deciso come te a divertirsi sull’orlo della prigione, o peggio, e questo qualcuno, come se non bastasse, era una donna. Tu non potevi provarlo, ma esisteva qualcosa d’altro e di meglio che non le prove più lampanti: un tocco particolare, una predilezione per i colori caldi, un’aura. Chissà, forse perché ti ritrovavi solo, te la sei immaginata per compenso; l’hai ammirata, hai temuto per lei, hai sperato che fosse quella l’unica volta, sei stato sul punto di tradirti quando lei tornò a disegnare vicino ad un altro tuo disegno, una gran voglia di ridere, di fermarti lì davanti come se i poliziotti fossero ciechi o stupidi.

Cominciò un tempo diverso, più intimo, più bello e insieme denso di minacce. Trascurando il tuo lavoro, uscivi nei momenti più impensati con la speranza di sorprenderla, hai scelto per i tuoi disegni strade che potevi percorrere in un solo rapido giro; sei tornato a casa all’alba, a tarda sera, alle tre di notte. Era un tempo di contraddizioni insopportabili, la delusione di trovare un nuovo disegno suo accanto ad uno dei tuoi e la strada vuota, e quella di non trovare niente e sentire la strada ancora più vuota. Una sera vedesti il suo primo disegno solo; lo aveva fatto con gessi rossi e azzurri sulla porta di un garage, utilizzando la testura dei legni tarlati e le capocchie dei chiodi. Era più che mai lei, il tratto, i colori, ma in più sentisti che quel disegno era come una richiesta o una domanda, un modo per chiamarti. Sei ritornato all’alba, dopo che le pattuglie avevano diradato il loro sordo drenaggio e sul resto della porta hai disegnato un rapido paesaggio d’acque e di vele; a non guardarlo bene si sarebbe detto un gioco, linee casuali, ma lei avrebbe saputo guardarlo. Quella notte sei sfuggito per poco a una coppia di poliziotti, nel tuo appartamento hai bevuto gin su gin e le hai parlato, le hai detto tutto quello che ti veniva alle labbra come un altro disegno sonoro, un altro porto con vele, l’hai immaginata bruna e silenziosa, hai scelto per lei labbra e seni, l’hai amata un poco.

Quasi subito ti venne in mente che lei avrebbe cercato una risposta, che sarebbe tornata al suo disegno come tu ora tornavi ai tuoi, e benché il pericolo si fosse fatto ancora più serio dopo gli attentati al mercato ti decidesti ad arrivare vicino al garage, gironzolare intorno all’isolato, bere interminabili birre al caffè dell’angolo. Era assurdo, perché lei non si sarebbe certamente fermata vedendo il tuo disegno, qualsiasi donna fra le molte che andavano e venivano poteva essere lei. All’alba del secondo giorno scegliesti un muro grigio e disegnasti un triangolo bianco circondato da macchie come foglie di rovere; dal medesimo caffè dell’angolo potevi vedere il muro (avevano già ripulito la porta del garage e una pattuglia seguitava a passare rabbiosa), verso sera ti allontanasti un poco ma sempre calcolando varie opportunità di visione, spostandoti da un punto all’altro, comprando piccole cose nei negozi per non richiamare troppo l’attenzione. Era ormai notte fonda quando sentisti la sirena e i fari ti accecarono. C’era un mucchio confuso di gente accanto al muro grigio, corresti contro ogni buon senso e ti aiutò soltanto il caso di una macchina che svoltava l’angolo e frenava vedendo il furgone cellulare, la sua massa ti protesse e vedesti la lotta, capelli neri tirati da mani inguantate, i calci e gli urli, la visione fuggevole di un paio di pantaloni blu, poi la buttarono nel furgone e la portarono via.

Molto tempo dopo (era orribile tremare così, era orribile pensare che tutto quello succedeva per colpa del tuo disegno sul muro grigio) ti mescolasti con altra gente e riuscisti a vedere un abbozzo in azzurro, i segni di quell’arancione che era come il suo nome o la sua bocca, lei lì nel disegno interrotto che i poliziotti avevano semi-cancellato prima di portarla via; restava abbastanza per capire che aveva voluto rispondere al tuo triangolo con un’altra figura, un cerchio o forse una spirale, una forma piena e bella, qualcosa come un sì o un sempre o un adesso.

Lo sapevi bene, avresti avuto tempo d’avanzo per immaginare i particolari di quanto certamente stava succedendo alla centrale; in città queste cose poco a poco trapelavano, la gente sapeva il destino dei prigionieri, e se qualche volta ne rivedeva qualcuno, avrebbe preferito non vederlo, avrebbe preferito che come la maggior parte si fosse perso in quel silenzio che nessuno osava rompere. Lo sapevi anche troppo bene, quella notte il gin non ti avrebbe aiutato che a morderti le mani, a stritolare sotto i piedi i gessi colorati prima di perderti nella sbornia e nel pianto.

Sì, però i giorni passavano e tu non sapevi più vivere in modo diverso. Hai ripreso a trascurare il lavoro per girare nelle strade, guardare di sfuggita le pareti e le porte dove tu e lei avevate disegnato. Tutto pulito, tutto chiaro; nulla, neppure un fiore disegnato dall’innocenza di un collegiale che ruba un gesso in classe e non resiste al piacere di usarlo. Neanche tu hai potuto resistere, e un mese dopo ti sei alzato all’alba e sei tornato nella strada del garage. Non c’era pattuglie, i muri erano perfettamente puliti; un gatto ti squadrò cauto da un portone quando prendesti i gessi e lì, nello stesso punto dove lei aveva lasciato il suo disegno, riempisti la porta con un grido verde, una rossa fiammata di riconoscenza e di amore, avvolgesti il tuo disegno in un ovale che era insieme la tua bocca e la sua e la speranza. I passi dietro l’angolo di lanciarono a una corsa silenziosa verso il rifugio di un mucchio di casse vuote; un ubriaco barcollante avanzò canticchiando, volle dare un calcio al gatto e cadde bocconi ai piedi del disegno. Ti sei allontanato lentamente, ormai tranquillo, e al primo sole ti sei addormentato, hai dormito come non ti succedeva da tempo.

Quella stessa mattina hai guardato da lontano: non lo avevano ancora cancellato. Sei tornato a mezzogiorno: inconcepibile, era ancora là. Le agitazioni nei sobborghi (avevi sentito le notizie alla radio) distraevano le pattuglie urbane dal lavoro ordinario; verso sera sei tornato a vederlo come tanta gente l’aveva visto lungo la giornata. Hai aspettato fino alle tre del mattino prima di rincasare, la strada era vuota e nera. Da lontano hai scoperto l’altro disegno, solo tu avresti potuto distinguerlo così piccolo in alto a sinistra del tuo. Ti sei avvicinato con un misto di avidità e di orrore, hai visto l’ovale arancione e le macchie viola da cui pareva protendersi una faccia tumefatta, un occhio spenzolante, una bocca disfatta a pugni. Lo so, lo so, ma che altro avrei potuto disegnarti? Quale messaggio avrebbe avuto senso adesso? In qualche modo dovevo dirti addio e nello stesso tempo chiederti di continuare. Qualcosa dovevo lasciarti prima di tornarmene al mio rifugio dove ormai non c’erano specchi, solo un buco per nascondermi fino alla fine nella più completa oscurità, ricordando tante cose e talvolta, così come avevo immaginato la tua vita, immaginando che facevi altri disegni, che uscivi la notte per fare altri disegni.

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