Letteratura
Dire addio al proprio mondo senza tradire, senza tradirsi
La decisione di Britta Böhler (Guanda) non è in senso proprio un romanzo, ma è un “viaggio intimo”. Più precisamente: lo scavo “emotivamente partecipato” intorno a un momento di svolta nella vita di Thomas Mann.
Svizzera, gennaio-febbraio 1936.
Thomas Mann ha deciso di uscire dalla Germania, di abbandonare Monaco, la città dove ha vissuto a lungo, e di attraversare la frontiera e di andarsi a stabilire con la famiglia in una casa vicino a Zurigo. L’atmosfera nella sua Germania si è fatta sempre più pesante. Il regime nazista è saldamente al potere da circa tre anni.
Thomas Mann è deciso a rompere un silenzio e quella condizione di ambiguità che ormai contraddistingue il suo atteggiamento pubblico nei confronti del regime (sul piano privato – meglio: intimo – quella rottura si è già consumata da tempo).
Decide perciò di pubblicare una lettera in modo che quella rottura sia manifesta e dunque sia tracciata una linea che non consenta la possibilità di revoca. Quella lettera è il vero protagonista delle pagine di Britta Böhler, anche se noi nel corso di quel testo non ci è data mai la possibilità di leggerla.
Ma appunto il problema non è ciò che scrive Thomas Mann, ma la condizione, la struttura di argomentazione, e dunque lo schema che fa sì che quella decisione sia irrevocabile.
La decisione alla fine dopo molte incertezze arriverà e sarà nella difesa della lingua come possibilità di dare corpo e forma ai pensieri e dunque nella rivendicazione della possibilità della lingua tedesca di non essere il veicolo del regime, ma di essere anche il luogo e il mezzo dove costruire un’altra Germania, meglio un’altra possibilità di Germania.
Dunque non c’è un’idea politica alternativa, ma la rottura è ancora più radicale: implica sostenere che “Germania” non si identifica con Berlino.
E’ ciò che fa affermare a Thomas Mann alla fine “Dove sono io, lì è Germania” e per farlo appunto si tratta di non lasciarsi spossessare dello strumento che consente di costruire immaginario, di produrre simboli, di comunicare desideri, progetti, in breve futuro. Quello strumento, meglio quel veicolo, è appunto la lingua.
La possibilità di avere parola, di continuare a parlare la propria lingua madre, di rivendicare la propria identità con la lingua implica non far coincidere le parole con chi detiene il potere.
Ciò che intuisce Thomas Mann, e Hannah Arendt con lui negli stessi anni e dopo di loro tutti coloro che hanno sperimentato l’esilio, è che salvare la lingua non significa solo dare una possibilità al “dopo dittatura” (più generalmente al “dopo regime”) di trovare un veicolo per poter continuare a produrre o a pensare, ma anche, e forse soprattutto, non consentire di essere espropriati della propria storia non solo dai nemici, ma anche da quegli amici incerti che nei momenti bui “vengono meno”, si adeguano”, “aderiscono”.
La lingua non va solo difesa dai nemici, ma anche da quella cerchia di amici che scelgono di abdicare, di passare col potere e dunque di “partecipare alla dittatura”. Perché il problema nelle condizioni in cui sono in discussione questioni di principio, non è rappresentato da cosa fanno i nemici, ma da ciò che fanno i nostri amici che”si uniformano”.
E tuttavia se quella decisione di salvare la lingua dall’uso che ne fanno gli attuali occupanti del potere, descrive la scelta di chi è in esilio e dunque rivendica un’identità “altra” rispetto al potere che testimonia di principi e valori opposti, è interessate prestare attenzione non solo all’atto della decisione, ma anche al processo che la pone in essere.
E’ un processo che non riguarda solo chi è coinvolto in prima persona e si trova a scegliere. Riguarda anche chi accanto, non direttamente coinvolto in quel dilemma, assiste a quell’indecisione e chiede chiarezza, sollecita decisioni, e si attende “abbandoni”, passaggi all’opposizione, invoca dichiarazioni di revoca. In breve riguarda il vasto mondo degli spettatori o di coloro che di fronte agli incerti si ergono a giudici.
E’ una condizione che riguarda il nostro tempo ora, da tempo, da almeno un ventennio ed è una condizione destinata ad essere sempre più frequente.
L’indecisione è uno spazio culturale, ma anche emozionale che è parte essenziale della nostra vita quotidiana. Non riguarda solo il tempo eccezionale, anche se nelle condizioni eccezionali, di fronte alla dittatura, di fronte alla guerra, rispetto all’egemonia nel proprio gruppo di appartenenza o ancor più spesso oggi di fede, di versioni della propria identità che sono distanti o opposte alla propria personalità culturale. Versioni che creano disagio, e che pongono le persone “al bivio”.
Che cosa significa provare emozioni dentro una guerra che non senti tua, o in una condizione di opinione pubblica che ti isola o ti marginalizza, ma nei confronti della quale non hai la forza di opporti? Come si sopravvive non tradendo se stessi e, allo stesso tempo, cercando di oltrepassare quella condizione di terrore? Quali sono le emozioni che si cercano? Quali le cose per le quali si trepida o ci si indigna? Dove e come si esprime il controllo sulle proprie reazioni? In che forme si controlla la propria doppiezza? Cosa significa provare la sconfitta? Come si selezionano i ricordi? A che cosa si dà valore? Quali le parole che si usano con maggior frequenza?
Nell’esperienza della indecisione, nel percorso che lentamente porta a decidere o talora perfino rende impossibile decidere ci sono molte cose che testimoniano di un rovello rilevante, saliente, per capire la personalità e il tormento di chi ci sta accanto.
Prestarvi attenzione non è mai un venire a patti col nemico, o tradire se stessi o essere indulgenti. E’ un modo per aprire varchi, per trovare o indicare possibili “uscite di sicurezza” per persone che con difficoltà riescono a percorrerle, non per ambiguità machiavellica, ma per un blocco reale, perché le ideologie, come le appartenenze, hanno un potere ricattatorio terribile e talvolta a sciogliere quel no non basta dire no.
E’ importante sforzarsi e trovare anche le strade e i percorsi per arrivarci, per non soccombere prima. E lungo quei percorsi non trovarsi soli. Lungo quei percorsi impareremo molto anche noi, di noi che ci crediamo in salvo e solo spettatori del tormento o dell’indecisione degli altri e che crediamo di fare la nostra parte solo mettendoci dall’altra parte ad aspettarli o a sollecitare che attraversino quel confine.
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