Letteratura
Dicitencello vuje
È il più bel inno all’amore, all’estasi che possa provocare una bellezza femminile che segna, lascia una traccia indelebile nel cuore dell’innamorato.
Dicitencello vuje, una canzone napoletana che fa invidia anche ad una poesia di Neruda.
Sono delineate e tratteggiate le comparazioni più calzanti ed affascinanti.
Si paragona la visione dell’incontro con la donna prescelta
– ad una giornata di sole,
– al sonno suo che è gentile,
– alla sua bocca che è fresca come le viole.
La si pensa sempre, come la pienezza dell’essere assoluto che respinge ineluttabilmente il vuoto e la si ritrae nel sogno come protagonista unica ed insostituibile, anche nella fantasia più sperticata, perché è una passione più forte di una catena indissolubile che tormenta l’anima e non lascia scampo al vivere quotidiano: per lei si perde il sonno. Ma dire che una donna assurga ad una rosa di maggio nella poesia napoletana è come richiamare la lettura del Cantico dei cantici o un sonetto di Shakespeare. A ragione di te ci si innamora. Una piú bella del mio amore? Il sole che vede tutto mai ha visto la sua pari dall’inizio del creato. Perché la donna partenopea passione, nostalgia, eros, ebbrezza, domina il mistero dell’amore, essendone protagonista assoluta.
E la freschezza delle donne è come quella delle sere di maggio: come le rose fanno aleggiare un profumo inebriante quando sono toccate dalla rugiada.
Si declina nella canzone un messaggio d’amore rivolto apparentemente ad un’altra donna (la sua compagna), mentre invece la destinataria è proprio chi lo riceve. Qui è l’elogio del pudore, della paura di essere respinti, di non essere scelti.
Ecco perché il canto si conclude con la lacrima lucente, pregna, preziosa, che spunta sulle gote della prescelta che comprende una verità che non ammette confutazioni: il sentimento dell’amore è rivolto solamente a Lei e non vi è nessun altra.
La maschera cade e la verità è ristabilita, perciò il suo sospiro diventa carnale.
Questo ci tramanda la letteratura partenopea: perché qui la donna è come una sirena (Parthenope – viso di vergine -)che esce dal mare e con il canto melodioso, ma tanto oscuro, che sconvolge, rapisce, devasta il cuore, porta l’eros pieno di lussuria al respiro di tutti i sensi, al diapason dell’intreccio dei corpi, che fa un tutto uno con l’unisono delle anime.
Nelle donne di Napoli c’è qualcosa di ancestrale, di primordiale che richiama l’amore sorgivo, qualcosa di ondeggiante, di volubile e di possente, che suscita l’immagine duplice e diversa della fiamma e dell’acqua.
E l’innamorato canta per i vicoli, per le strade strette, innanzi al mare il suo inno d’amore, senza ritegno alcuno: perché a Napoli sono nate le serenate e tutti devono sapere chi si ama: perché lì si ferma l’assoluto della scelta, perdurante per una vita intera.
Ti cerco come l’aria – così si conclude la canzone – perché se manca, viene meno, si muore insieme, si lascia questo mondo non potendo l’assenza essere sopportata.
L’amore non tollera la solitudine, vuole, pretende la continuità spirituale, con la propria donna, compagna di una vita: se muore lei non c’è più ragione di restare in questo mondo.
Andrò nel regno degli dei, nel giardino di Venere, la ritrovo lì che mi aspetta ansimante.
Le sirene sono eterne con il loro canto melodioso non sopportano la rottura, avvinghiano, trasportano nell’infinito, nell’acqua di mare dove Venere è nata: e questo ritorno sancisce l’Assoluto dell’amore.
Per il fatto che l’amore trasformi l’amante nell’amato, fa sì che penetri nell’intimità (in interiora) dell’amato e viceversa, cosicché nulla di ciò che appartiene all’amato rimanga disgiunto.
Con te per sempre.
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