Letteratura
Dibba, mon semblable, mon frère
“Il Foglio” in una serie di manchette sta estrapolando e pubblicando alcuni brani dell’ultima fatica letteraria “A testa in su” del grillante Alessandro Di Battista. Ecco alcuni carotaggi:
“Sul fiume Paranà barattai mezza giornata di carico e scarico di un passaggio fino alle missioni gesuite del Paraguay. Non conoscevo la tecnica giusta per caricare quei sacchi pesantissimi, ma trattenevo i lamenti per non fare la figura dello straniero tutto chiacchiere e borghesia”. p.16
“Il senso della vita era ancora più torbido di quando ero partito e il divino era sfuggente. Io non sapevo cosa avrei fatto al mio ritorno in Italia, non sapevo quando sarei tornato ma stavo bene, mi riconoscevo in me stesso, riconoscevo la mia identità anche se nessuno, su quella nave, conosceva il mio nome. Sentivo che ogni mio gesto estendeva il mio senso di appartenenza verso il genere umano”. p.103
Davanti a questi sqarci di lirismo io dico: sublime Dibba! Mon semblable, mon frère! Dibba non è un Chatwin andato a male, né l’estasi del pecoreccio di Labranca, ma qualcosa di letterariamente più grandioso: è ciò che Flaubert inseguiva nei suoi personaggi, un orrore estetico che ovviamente vedeva in se stesso e che esorcizzava proiettandolo in essi: la serva Félicité che scambia il parrocchetto per lo Spirito Santo; la “petite femme” Emma che legge libri di cavalleria che le rendono insopportabile la vita nell’astanteria di un medico di provincia e che le fanno sbattere gli occhietti verso il nulla indaco Oltremare; Bouvard et Pécuchet, alla ricerca di supplementi d’anima, alle prese con libri eccedenti il perimetro della loro anima; Sant’Antonio inebetito nella sua tebaide spirituale dilaniato tra spirito e materia…
Si tratta per la precisione di “lyrisme dans la blague”, di lirismo nella farsa (cit. testuale da epistolario Flaubert, v. lettera a Louise Colet 8-9 maggio 1852. ). È il momento in cui il sublime si apre un varco nei minus habentes, fuoriesce dalla “Critica del giudizio” di Kant e invade i cuoricini delle Ladies del Kent, in cui l’eterno si mischia con il ridicolo, in cui l’Assoluto preme con la stessa cogenza… della cinghia dei pantaloni.
Ma attenzione, cari foglianti. Non fate i facili e i superiori. Dibba è tutti noi, ma anche tutti voi! Egli è l’espressione perfetta, democratica, democraticissima, dell’uomo medio sensuale giunto alla pienezza dei tempi, del droghiere (l’épicier, essere scambiato per un épicier era la paura ricorrente di Flaubert) che gusta l’ebbrezza della propria anima e che sente non i rombi dell’eterno ma i suoi rombi dell’eterno, quelli alla sua portata; del riverbero della luna in fondo al pozzo; non dell’anima e le forme, ma dell’anima e l’informe…
Nell’epoca della società industriale avanzata, della proliferazione dei beni estetici di massa, del porno ad libitum sulla rete, in cui la noble machine dei corpi, di cui parlava Baudelaire, si fa “carnezzeria” palermitana, in cui la “ricerca dell’Assoluto” balzacchiana è alla portata di ogni anima, per piccina che sia… Dibba è il nostro Des Esseintes in sedicesimo, il perfetto esteta rionale alla nostra portata.
Flaubert, al pari di Baudelaire, temeva la fotografia e la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, ancor prima di Benjamin; si rifiutò di acconsentire alla richiesta dell’editore di accompagnare con le illustrazioni il suo “Salammbô “, cosa che il prodiano (cattolico adulto) Manzoni fece senza batter ciglio con il suo romanzo, anzi collaborando come un divino copista con l’illustratore Gonin, assecondando in fondo una estetica popolaresca in cui le orazioni di Bossuet potevano essere fruite tranquillamente da Donna Prassede. Flaubert invece temeva l’effetto portinaie, non era Eugène Sue, lui. Non inseguiva, temeva l’uomo-massa.
Ecco perché Dibba c’est nous. Almeno in due modi: come l’acculturato uomo-massa universale uscito dal travaglio (sic!) dei secoli della civiltà occidentale e come italiano. Dibba è Bouvard&Pécuchet con la Costituzione in mano, il barbaro giunto al trono di Bisanzio, l’uomo massa che andrà al potere sull’onda della rebelión de las masas di Ortega y Gasset. I suoi delicati acquerelli ricordano quelli di zio Adolf (absit iniuria verbis), ci dicono che dietro l’uomo che come un misirizzi punta al potere del futuro c’è una delicata anima affranta, una vocazione estetica conculcata, un salon des refusés col colpo della vendetta in canna.
Il suo lirismo nella farsa è il degno approdo dello sfacelo antropologico italiano (come sempre, come per il fascismo o il berlusconismo, nient’altro che la prefigurazione di un modello mondiale).
Dibba: sublime e ridicule allo stesso tempo, corrusco e fumido, terribile e accecante come il riverbero dello scudo di Achille nel nostro letamaio politico.
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