Letteratura

Diario al tempo del coronavirus 4

19 Marzo 2020

Cles, 19 Marzo 2020

Giancarlo mi chiede «come stai in questi tempi di 41 bis», gli rispondo :«Faccio lezioni on line e poi poco altro. Non riesco a leggere nulla. Scrivo qualcosa sul diario [questo] on line. Strano effetto».

Lui mi risponde che sta scrivendo un testo teatrale su Matteotti, e me ne propone la lettura della prima stesura, cosa che accetto volentieri. E’ un drammaturgo,  una persona che davvero per me costituisce un modello di vita. Avessi un quinto della sua disciplina, mi sarei risolto a produrre qualcosa anch’io, oltre qualche testo di studio. Ma pensandoci, per ora, mi sta bene il testo breve, il diario, e non è vero che esso deve rimanere intimo. Si scrive sempre per qualcuno, per un amico immaginario, per un lettore futuro, per il proprio abditum mentis. Si scrive per lasciare traccia. Oggi Lucia mi chiedeva : «cosa penserebbe il tuo Derrida di questi strani tempi»? Le ho risposto qualcosa come: «direbbe di finire ciò che hai iniziato, direbbe di lasciare tracce, come bave di lumaca, come filo di seta da un bruco».

Si scrive per curarsi, per testimoniare, per comporsi nel tempo ritrovato. Ma anche per tante altre ragioni. Sicuramente c’è del narcisismo, nell’esporsi così in pubblico. Ma a me rilassa, acquieta, dà  respiro. Segna una tacca sul muro della cella che è diventata lo spazio in cui passo queste giornate.  Immagino che così ci si debba sentire i primi giorni di reclusione. Quella vera, nella cella affollata. Nessun paragone certo, ci mancherebbe. Massima vicinanza ai detenuti.

Oggi 475 morti, il tragico bollettino. Vedo in tv la teoria dei camion militari che trasportano le bare in cimiteri d’altre provincie. Penso allo strazio dei parenti, di madri, figli, sorelle. Vissuti insieme, se ne sono andati da soli, morendo a stento, ingoiando l’ultima voce. Senza l’ultima carezza sulla mano o un bacio di commiato.

Michela Marzano ha scritto un tweet in cui dice che non riesce a leggere. Sì, anche io non riesco a leggere, ma scrivo. Poi, come un prigioniero, mi prendo un tempo di pausa, venti minuti d’aria, e cammino nel quartiere deserto di questo paese della valle dove sono venuto ad abitare più di dieci anni or sono, io cittadino, che quando torno dai miei amo correre lungo il mare e sentirne il profumo. Mentre cammino in queste strade deserte, scorgo muoversi le tende in maniera furtiva, spionistica. Sorrido.

E quando non ci sarà più nulla da dire, allora tacerò e riprenderò a leggere. Forse. O forse il morbo mi prenderà  e porterà con sé in 8 giorni. «C’est ce jour-là, à cette heure-là que tout a commencé. Et j’arriverais — au passé, rien qu’au passé — à m’accepter. » (J-P. Sartre, La Nausée)

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