Letteratura

Dialogo con Giusy Capone, un viaggio tra miti e parole dalla classicità alla modernità

Borges definiva la letteratura come “il sogno di un uomo che sogna”, una dimensione che ci consente di vivere altre vite, di abitare altre coscienze, di moltiplicare il nostro sguardo sulle cose.

23 Febbraio 2025

Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata “Orizzonti culturali italo-romeni”; si occupa delle pagine culturali di diversi portali, tra cui “La Fionda”, “Pangea”, “Il Borghese”, e riviste cartacee, tra cui “Il Corsaro nero”, “L’agire sociale”, “Nova” e “Flussi potenziali”; cura un blog letterario.

 

La Fondazione “Pina Alessio”, Onlus nata con l’obiettivo di trasmettere e diffondere il modello, la cultura ed i valori della Solidarietà e della Carità verso i più deboli, ti ha attribuito un riconoscimento in ragione del tuo contributo di critica letteraria.

Cosa è per te la letteratura?

La letteratura è, innanzitutto, un atto di conoscenza e di resistenza contro la dissoluzione dell’esperienza nel fluire indistinto del tempo. È un’archeologia del possibile, un modo per interrogare la realtà senza limitarsi a registrarla, ma trasfigurandola attraverso il prisma del linguaggio. Come la memoria involontaria proustiana, la letteratura cattura ciò che sfugge all’osservazione immediata e lo restituisce in una forma che non è mai pura riproduzione, ma sempre reinvenzione.

In questo senso, non è mera narrazione o evasione, ma un dispositivo critico attraverso cui l’individuo si emancipa dalla passività e si fa partecipe di una visione più ampia e profonda del mondo. Essa è un laboratorio dell’umano, in cui le passioni, le idee e le contraddizioni si dispiegano in una dialettica incessante, in un gioco di specchi tra la scrittura e il lettore, tra l’autore e il tempo.

La letteratura, dunque, non è un passatempo o un documento storico: è un territorio della mente in cui si compie un’esplorazione radicale delle possibilità dell’essere. Non a caso, Borges definiva la letteratura come “il sogno di un uomo che sogna”, una dimensione che ci consente di vivere altre vite, di abitare altre coscienze, di moltiplicare il nostro sguardo sulle cose. Se essa sopravvive ai secoli è perché sa adattarsi ai mutamenti dell’epoca senza perdere la sua essenza, perché sa interrogare il presente con la profondità che solo il passato può offrire.

Per la Rivista “Agire sociale” scrivi di Volontariato. Il volontariato è il miracolo di regalarsi agli altri, qualcosa di ben chiaro a chi, nel corso della vita, abbia speso il tempo per il prossimo in maniera gratuita e disinteressata. Il volontariato è anche democratico, non ha confine di sorta né alcuna limitazione, può essere praticato scegliendo qualcosa affine a propri interessi e commisurato alla propria condizione e disponibilità di tempo.

Mi dai la tua idea di volontariato e perché credi che in un mondo disincantato e apatico nei confronti del prossimo, ci sia bisogno di volontariato?

Il volontariato, nella sua essenza più pura, è la manifestazione concreta di un’etica della responsabilità e della cura. È il gesto che si oppone alla logica dell’utile, alla mercificazione di ogni relazione umana, alla riduzione dell’individuo a mera funzione produttiva. Se il nostro tempo è segnato da un disincanto diffuso e da una progressiva anestesia emotiva, il volontariato rappresenta una forma di resistenza contro l’indifferenza, un atto che afferma il valore della gratuità in una società ossessionata dall’accumulazione.

Ma il volontariato non è solo dono: è anche trasformazione. Chi si dedica agli altri non solo offre, ma riceve, perché sperimenta una dimensione dell’esistenza che il mondo contemporaneo tende a marginalizzare: quella dell’incontro autentico. Il volontario non è un benefattore dall’alto, ma un mediatore, qualcuno che si pone in ascolto, che si lascia toccare dalla fragilità dell’altro e ne fa una leva per il cambiamento. Il legame sociale è minacciato dalla solitudine e dalla polarizzazione, il volontariato è una pratica democratica, un’esperienza che restituisce alla comunità la sua dimensione originaria: quella di un tessuto di relazioni solidali in cui nessuno è lasciato indietro.

Gesualdo Bufalino diceva che se avesse dovuto portare un solo libro su un’isola deserta quel libro sarebbe stato un vocabolario. Ed è risaputa la passione di Primo Levi per i dizionari, soprattutto etimologici. De André cercava di imparare a memoria la Treccani (nella poesia originale di Edgar Lee Masters il riferimento era all’Enciclopedia Britannica). La parola romanzo è anche un aggettivo che rimanda al mondo delle lingue derivate dal latino: lingue neolatine o, appunto, romanze. Leibniz raccomandò la preparazione di grammatiche e dizionari delle lingue del mondo, di atlanti linguistici, e di un alfabeto universale basato su quello latino. 

 

Perché il latino e il greco possono essere considerate lingue moderne?

Latino e greco non sono lingue morte, ma lingue sotterranee, che continuano a vivere nella struttura stessa del nostro pensiero. Esse costituiscono l’architettura della modernità, non solo per la loro persistenza nel lessico delle scienze, della filosofia, del diritto e della medicina, ma, soprattutto, perché ci offrono una grammatica della complessità che il presente tende a semplificare e a ridurre.

Studiare il greco e il latino significa imparare a leggere il mondo in profondità, a coglierne le stratificazioni semantiche, a comprendere il modo in cui il linguaggio modella la realtà. Oggi, comunicazione è sempre più rapida e frammentaria, il rigore e la lentezza richiesti dallo studio delle lingue classiche sono una forma di allenamento alla precisione del pensiero e all’analisi critica.

C’è poi un aspetto più sottile, eppure essenziale: il latino e il greco ci insegnano che le parole hanno un’origine, che ogni termine porta con sé una genealogia concettuale. E in un tempo in cui il linguaggio è spesso impoverito o manipolato per scopi ideologici, questa consapevolezza è un antidoto contro la superficialità e l’eterodirezione del pensiero.

Secondo Zagrebelsky, il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Ricordiamo la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l’esigenza di impadronirsi della lingua, “comanda chi conosce più parole e solo la la lingua e ci fa uguali”.

Mi dici la tua idea in merito?

Come scriveva Orwell, il controllo del linguaggio è il primo passo per il controllo del pensiero. Se la democrazia è, per sua natura, uno spazio di confronto e di pluralismo, essa non può esistere senza un linguaggio ricco, articolato, capace di esprimere sfumature e contraddizioni.

La povertà lessicale non è solo un problema culturale, ma un rischio politico: meno parole significano meno possibilità di pensare, meno strumenti per nominare le ingiustizie, meno risorse per opporsi alla semplificazione propagandistica. Quando il linguaggio si impoverisce, la democrazia si svuota, perché la cittadinanza consapevole si nutre di un vocabolario che consenta di analizzare la realtà con complessità.

Per questo la scuola di Barbiana e Don Milani avevano intuito qualcosa di fondamentale: la lingua è potere, e solo chi padroneggia le parole può partecipare pienamente alla vita politica. Il problema della democrazia, oggi, è anche un problema di alfabetizzazione: senza un’educazione che restituisca alle persone la padronanza del linguaggio, il rischio è che il discorso pubblico si riduca a slogan e parole d’ordine, lasciando spazio a forme di potere sempre più autoritarie.

I movimenti nazionalisti, populisti e xenofobi che combinano strumentalmente

euroscetticismo, intolleranza, odio e razzismo per aumentare il loro consenso

nell’opinione pubblica rappresentano un pericolo per la costruzione di una società

europea democratica, unita, coesa e pacifica. Il dibattito pubblico è attraversato da

stereotipi e pregiudizi nei confronti di immigrati e rifugiati che spesso degenerano

in hate speech, insulti e attacchi razzisti che incitano all’odio e alla violenza. Quello del rispetto e dell’inclusione è anche un aspetto fondamentale e trasversale dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Ci racconti quale era il comportamento adottato nell’antichità nei confronti del diverso, dello straniero, delle minoranze, e quale la qualità del dibattito pubblico in un Paese a cui si fa risalire l’origine della democrazia?

 

L’atteggiamento nei confronti dello straniero e delle minoranze nell’antichità è stato ambivalente: da un lato, l’ospitalità era un valore sacro, dall’altro, la cittadinanza era spesso un privilegio esclusivo. L’Atene di Pericle, che è all’origine dell’ideale democratico, era anche una città in cui solo una ristretta élite godeva dei diritti politici.

Il dibattito pubblico, sebbene vivace, non era esente da manipolazioni: la retorica aveva un ruolo centrale nella costruzione del consenso, e la demagogia era una minaccia costante. Oggi assistiamo ad una dinamica analoga: la costruzione del nemico, la polarizzazione dell’opinione, la semplificazione estrema delle questioni

complesse sono strumenti attraverso cui il dibattito politico viene ridotto a spettacolo.

L’antichità, dunque, ci insegna che la democrazia è fragile, che essa non è un dato acquisito ma un equilibrio sempre da negoziare. E ci ricorda che il modo in cui una società tratta i suoi stranieri e le sue minoranze è il termometro della sua civiltà.

Il Carmide, tra i primi dialoghi socratici di Platone,è un dialogo in cui Socrate e i suoi interlocutori riflettono sul concetto di  sophrosyne – traducibile come saggezza, trasparenza, moderazione e disciplina.

Credi che nella società degli eccessi siano valori ancora coltivabili?

Il termine greco sophrosyne è di difficile traduzione perché racchiude in sé un complesso di significati che spaziano dall’autocontrollo alla consapevolezza, dalla temperanza alla lucidità intellettuale. Nel Carmide, Platone la pone al centro del dialogo come virtù necessaria per la conoscenza di sé e per una vita armoniosa.

Ma come può sopravvivere la sophrosyne in una società dominata dall’eccesso? Il mondo contemporaneo sembra fondato sull’iperstimolazione sensoriale e sulla ricerca compulsiva di piaceri immediati. L’eccesso è diventato la norma: nel consumo, nell’intrattenimento, nel modo di comunicare. La moderazione, al contrario, appare anacronistica, quasi un freno allo sviluppo individuale e collettivo.

Eppure, proprio in un contesto di sovraccarico, la sophrosyne si rivela un valore più che mai necessario. La capacità di moderare le pulsioni, di selezionare con discernimento, di esercitare la padronanza su se stessi è oggi una forma di resistenza alla dispersione e all’alienazione. Nella società della connessione permanente, la vera libertà non sta nell’accesso illimitato, ma nella capacità di scegliere consapevolmente a cosa concedere attenzione.

Recuperare la sophrosyne significa, quindi, riscoprire il valore della misura, non come repressione, ma come forma superiore di autonomia e di padronanza di sé. Significa opporsi alla bulimia del consumo e alla superficialità dell’informazione, riaffermando la centralità della riflessione, della lentezza, della profondità.

In un mondo iperconnesso, in cui ciascuno sembra chiuso nella propria bolla, internet e i social media costituiscono un potente elemento “dopante” dell’identità, luogo in cui troviamo lo scenario per continue autorappresentazioni di noi stessi in universi simbolici artificiali che possono mettere a rischio la stabilità della nostra identità.

In questa modernità liquida dove risulta difficile mantenere relazioni e impegni a lungo termine, cosa significa avere un’identità stabile?

Zygmunt Bauman descrive la nostra epoca come una modernità liquida, caratterizzata da relazioni ed identità instabili, da vincoli sociali deboli e da un costante senso di precarietà esistenziale. Se il passato offriva modelli identitari forti e strutturati, oggi il soggetto è chiamato a reinventarsi continuamente, oscillando tra molteplici ruoli e immagini di sé.

In uno scenario del genere, cosa significa avere un’identità stabile? Significa forse rifiutare il cambiamento, ancorarsi a un nucleo fisso e immodificabile? O significa, piuttosto, costruire una coerenza interiore che possa resistere alle trasformazioni senza dissolversi in esse?

L’identità stabile non è rigidità, ma capacità di integrare il cambiamento senza perdere il senso di sé. È un processo, non uno stato. È la consapevolezza delle proprie radici, ma anche la disponibilità ad aprirsi all’altro senza che ciò comporti uno smarrimento. Nell’epoca della frammentazione, costruire un’identità stabile significa coltivare la memoria, esercitare la capacità critica, dare un significato profondo alle proprie scelte.

Paradossalmente, la stabilità non si trova nell’immobilità, ma nella capacità di navigare l’incertezza senza farsi travolgere da essa. In questo senso, la paideia classica, con la sua attenzione alla formazione integrale dell’individuo, offre ancora oggi una lezione preziosa: l’identità solida non è quella che resiste al cambiamento, ma quella che lo governa con saggezza.

Un tratto fondamentale della mentalità greca antica è il concetto di essere superiore agli altri, nell’Iliade l’areté eroica, le virtù per eccellenza è forza, grandezza, perfezione, questo perché il coraggio e lo spirito competitivo erano valori fondamentali in una società militare. Con l’affermarsi del neoliberismo, la

competizione è diventata la pietra miliare per misurare prestazioni, cosa credi che la classicità possa ancora insegnarci?

Pensi che nella società omologata in cui vigono le leggi del mercato, dell’arrivismo e dell’individualismo ci sia ancora spazio per la sensibilità e gli affetti profondi, per la diversità e la fragilità?

Nella società greca, l’areté era un principio fondante: il valore di un uomo si misurava nella competizione, nel confronto con gli altri, nella capacità di distinguersi per virtù e capacità. Oggi, in un mondo regolato dalla logica neoliberista, la competizione assume forme altrettanto pervasive, diventando criterio dominante per il successo individuale.

Ma la classicità ci insegna anche un altro modello: quello della philia, dell’amicizia e del legame profondo tra individui. Omero, dopo aver esaltato il coraggio eroico di Achille, ci mostra la sua vulnerabilità nel dolore per la morte di Patroclo. Aristotele distingue tra amicizia per utilità, per piacere e quella perfetta, fondata sulla reciprocità del bene.

Se la società moderna sembra premiare solo l’arrivismo, è ancora possibile uno spazio per la sensibilità e gli affetti? La risposta sta nella capacità di riscoprire il valore delle relazioni autentiche, quelle che non si fondano sull’utile, ma sulla condivisione di un orizzonte comune. La competizione senza etica diventa cinismo; la competizione temperata dalla coscienza del valore dell’altro può invece trasformarsi in un motore di crescita collettiva.

In un tempo in cui siamo sottoposti a performance e pressioni sociali è d’obbligo riflettere su due termini simili, ma diversi: efficacia, che prende in considerazione unicamente il risultato, ed efficienza, l’insieme di buone pratiche, strategie e azioni che permette di arrivare all’obiettivo atteso attraverso un impiego ottimale di risorse, tempo ed energia, – oggi viene interpretata brutalmente come la capacità di ottenere il miglior risultato con il minimo sforzo -.

Ha ancora senso parlare di sforzo, impegno, approfondimento, sacrificio, fatica?

Viviamo in una cultura che esalta il risultato immediato, che premia l’efficienza intesa come minimo sforzo per il massimo rendimento. Ma il sapere, l’arte, la creatività e la stessa maturazione personale non possono prescindere dall’impegno, dalla disciplina, dalla fatica.

La storia della cultura è la storia di un’ascesi intellettuale, di uno sforzo continuo per superare i propri limiti. Senza sforzo non c’è profondità, senza sacrificio non c’è creazione. Se oggi questi concetti appaiono obsoleti è perché si è diffusa l’idea che tutto debba essere rapido, accessibile, privo di ostacoli. La verità è che le cose più significative della vita, dalla conoscenza alla costruzione di relazioni autentiche , richiedono tempo, dedizione, lavoro su di sé.

La parola testo ha a che fare col tessere, azione che immancabilmente riferiamo alla tela di Penelope.  Una recente reinterpretazione del mito scardina uno stereotipo che collega tessitura e lavoro muliebre e, quindi, segregazione domestica. Penelope non esce mai dal suo meraviglioso palazzo però lì dentro, nella stanza del telaio, riesce a ricavare quella che Virginia Woolf chiamava ‘una stanza tutta per sé’. È una stanza dell’immaginazione, del sogno, della speranza e di un tempo che è solo suo. “Tessendo e disfacendo la tela Penelope non si piega, ma determina la realtà.

Puoi farci un esempio di rilettura in chiave moderna di qualche figura mitica di donna?

Uno degli esempi più affascinanti di rilettura moderna è la reinterpretazione di Medea, passata dall’essere archetipo di barbarie e vendetta a simbolo di ribellione contro il dominio patriarcale. Christa Wolf, nel suo romanzo Medea. Voci, la ritrae non più come una strega sanguinaria, ma come una donna emarginata dalla società greca perché portatrice di una diversità inaccettabile.

Medea diventa così un’allegoria della condizione femminile, del destino di chi si trova fuori dalle norme imposte, di chi paga con l’esclusione la propria indipendenza.

“La vita è l’arte dell’incontro”, a partire da quello con noi stessi e con la nostra libertà di diventare quello che abbiamo dentro. Per Ulisse, come per tutti noi, arriva il momento in cui, naufraghi e soli, abbiamo bisogno di scoprire e affrontare i nostri nodi per poter ripartire in nuovi viaggi.

La scoperta è ancora un viaggio che vale la pena fare? E quali sono gli strumenti necessari per intraprendere questo viaggio?

Il viaggio è, da sempre, una metafora della conoscenza. Odisseo, Dante, Leopardi, Rimbaud: tutti hanno raccontato, in forme diverse, la tensione verso l’ignoto.

 

Oggi, il sapere sembra accessibile con un clic. Ha ancora senso la fatica della scoperta? La risposta è sì, perché la scoperta autentica non è accumulo di dati, ma trasformazione dello sguardo. Viaggiare non significa solo spostarsi, ma mettersi in discussione, disfare certezze, aprirsi alla possibilità di essere diversi.

Per Foscolo Ulisse è l’eroe del viaggio e l’eroe del ritorno nel sonetto in “A Zacinto” ed è l’astuto ingannatore protetto dai potenti ne “I Sepolcri”. Saba utilizza la similitudine con Ulisse per parlare di sé, del suo spirito inquieto che lo portava nella sua giovinezza a navigare per le isole dalmate. Nell’ “Ulisse” di Joyce gli episodi che raccontano le peregrinazioni dell’ebreo irlandese Leopold Bloom hanno un certo parallelismo rispetto all’Odissea.

Cosa può ancora oggi dirci Odisseo?

Odisseo è l’eroe dell’intelligenza, della resilienza, del ritorno. Oggi, la sua figura può essere letta come un simbolo dell’individuo moderno, costretto a reinventarsi, a superare prove, a cercare un senso nel movimento incessante del mondo.

Odisseo ci insegna anche che il viaggio non è solo erranza: è ricerca di una casa, di un’identità, di un luogo a cui tornare.

Nella Telemachia, Telemaco, già adulto, parte alla ricerca del padre spinto da Atena sotto forma di Mentore e visita i vecchi eroi della guerra di Troia, amici del padre o che hanno conosciuto Ulisse. Oggi si parla della figura dell’insegnante come un mentore coach, una guida, un maestro che diventa modello di riferimento nella crescita scolastica e personale dello studente.

Che cosa significa essere insegnanti oggi?

Essere insegnanti oggi significa essere mentori, non semplici trasmettitori di nozioni. Significa fornire strumenti per decifrare la complessità del mondo, coltivare il dubbio, stimolare la creatività e il pensiero critico. L’insegnante non è una figura del passato, ma un faro nel disorientamento del presente.

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