Letteratura

Dialogo con Gianni Puca, tra le pagine del suo “Giallo sapevo”

I folli rivoluzionari, protagonisti di Giallo sapevo, sono un gruppo di cittadini che si ribellano ai due Stati paralleli. Una rivoluzione non violenta contro la politica e la camorra, cercando di far partorire per una volta un accordo tra Stato e criminalità organizzata.

3 Marzo 2025

Gianni Puca, avvocato e scrittore, è autore di un romanzo giallo, il cui titolo “Giallo Sapevo” è il preludio di mirabolanti invenzioni linguistiche che raccontano di un gruppo di improbabili reincarnazioni di detective della letteratura e del cinema alle prese con indagini su un bizzarro omicidio commesso in un palazzo di Napoli.

Giallo sapevo è un giallo in cui si muore principalmente dal ridere.

Invenzioni di ogni sorta, parodie linguistiche, mirabolanti onomatopee, mots-valises, stravaganti composti, accumulazioni verbali, linguaggi immaginari, nonsense, giochi di parole, risemantizzazioni grottesche, coloriture dialettali, storpiature onomastiche, pastiche di registri linguistici e di generi differenti. Pare proprio di potere affermare che nessuno dei procedimenti espressivi connaturati all’invenzione del linguaggio sia estraneo.

Un’esuberanza verbale e un comico grottesco come quando l’autore scrive:

“A Napoli teniamo un sacco di posti belli: io sono rimasto incantato dal Cristo bendato”

“Mani in atto quetta è una rapina”

Anche la trama gioca su elementi farseschi e rocamboleschi come quando il rapinatore gentiluomo si rivolge ai correntisti dicendo “Scusatemi signori, non vi allarmate, questa è semplicemente una rapina. La pistola ce l’ho in tasca per evitare che parta inavvertitamente un colpo. Vedo che già avete le mani in alto. Grazie per la collaborazione” o quando a proposito di fantasiosi collaboratori di giustizia, uno di questi afferma: “Senza complimenti, se vi serve un testimone oculato, io sono a disposizione….però avvisatemi qualche giorno prima, perché quando sono troppo fatto, nelle fattezze mi imbroglio, e poi al giudice ci racconto un fatto per un altro”.

 

 

 Da cosa scaturisce l’idea di un giallo umoristico in cui casi giudiziari irrisolti, o conclusi con errori clamorosi, si mescolano con storie e aneddoti inventati?

  • Il genere del giallo umoristico mi fu consigliato dal mio amico Maurizio de Giovanni, che aveva letto i miei precedenti libri. Mi consigliò la lettura di alcuni gialli umoristici di Donald Westlake e questo genere mi affascinò da subito.

L’idea di raccontare di errori giudiziari è nata da uno dei casi che mi aveva turbato da bambino, avevo più o meno dieci anni quando vidi al TG decine di giornalisti all’alba sotto casa di Enzo Tortora, arrestato per fatti che si scoprì dopo anni che non aveva mai commesso. Una condanna, in primo grado, fondata sul nulla assoluto, che portò il magistrato a definirlo “cinico mercante di morte”. Il mio libro inizia proprio con la lettera che Tortora scrisse alla moglie dal carcere. All’epoca, seguivo Portobello che andava in onda la sera sulla RAI, in sequenza con Pappagone, con Peppino De Filippo, e Goldrake, il primo cartone animato.    

 

Nel romanzo si viene arrestati per spaccio di mozzarelle, mi viene in mente che fu nominata operazione ‘la bufala’ un’indagine che portò all’arresto di sei persone tra Francavilla e Chieti. La droga, prevalentemente cocaina, ma anche marijuana, veniva ceduta dietro la vendita itinerante di mozzarelle.

Tu che sei un avvocato e che ogni giorno ti dibatti nelle aule di tribunale. Credi che la realtà sia molto distante dal surreale e quante delle tue storie sono ispirate a fatti accaduti?

L’arresto per una bufala di cui racconto, purtroppo, non è una bufala. Il linguaggio in codice utilizzato in altri casi in cui davvero il nome dell’oro

 

  • bianco della nostra terra veniva utilizzato per quello meno nobile prodotto dal cartello colombiano, portò -in quel caso- all’arresto del titolare di un caseificio che vendeva realmente mozzarelle ad un delinquente che era intercettato dalla polizia.

 

 La tua inesauribile leggerezza nel raccontare che ti porta fatalmente ad incamminarti sulla difficile strada del comico o della più “leggera” ironia, privilegia il registro comico anche quando l’argomento è serio. Come mei questa scelta che rappresenta per te un’esigenza quasi insopprimibile?

  • L’umorismo è una cosa seria, per me deve essere uno strumento, non un fine. La leggerezza, intesa nel senso calviniano, può aiutare a trasmettere messaggi al lettore su tematiche anche molto serie e delicate. Spesso, si tratta di comicità preterintenzionale, nel senso che racconto le storie esattamente così come mi accadono nella realtà. Il vero comico è chi ha scritto la mia storia. Spesso, devo usare la fantasia per rendere credibili le cose che mi accadono realmente tra i tribunali e la vita di tutti i giorni.

 

Nel tuo giallo, l’ispettore si chiama Zenigata, cosa ti ha indotto a usare il nome di uno dei personaggi più iconici e amati della cultura pop giapponese, soprannominato Zazà  da Lupin e dai suoi amici?

  • Zazà è uno dei miei personaggi preferiti dei cartoni. L’unico a cui non ho storpiato il nome, a differenza degli altri inquirenti che sono tutti improbabili reincarnazioni di detective del cinema o della letteratura. L’ispettore Derrick, per esempio, diventa D’Errico, il commissario Montalbano diventa il commissario Lui, invece, rimane Zenigata perché al commissariato a cui appartiene insieme agli altri protagonisti si trova ad affrontare tutti casi che richiamano i delitti irrisolti e gli errori giudiziari degli ultimi quarant’anni in Italia, e – chiaramente – così come nella realtà non ne risolvono neppure uno. L’epilogo dell’unico giallo inventato del romanzo, quello del cadavere trovato sul letto di uno scrittore,  scomposto in 117 tasselli di un puzzle, alla fine risulta meno surreale delle storie vere raccontate per non dimenticare le tante persone che hanno subito torti clamorosi.

 

L’arte umoristica analizza, scompone, smonta la realtà che rappresenta. Secondo Pirandello, l’umorismo nasce dal “sentimento del contrario”, ovvero dalla riflessione sul dramma che si nasconde dietro il riso. 

Cos’è per te l’umorismo?

  • Una necessità. Ho pubblicato una decina di libri, di cui uno solo non umoristico: “L’Amore non muore”, in cui racconto storie di Amori reali, romantici e impossibili, vissuti da diverse prospettive. Il mio fu un esperimento molto apprezzato dai miei lettori, ma prima di riuscire a scrivere un altro romanzo serio sull’Amore, dovrei innamorarmi di nuovo seriamente. Nel frattempo, continuo a raccontare le storie assurde che mi accadono nella realtà, e cerco di cogliere il lato comico anche nelle cose tristi che, purtroppo, a volte capitano anche a me. L’umorismo, per me, è anche e soprattutto una cura. Spesso analizzo le patologie da cui ho la sensazione di essere affetto con la mia psicoterapeuta immaginaria, e siamo giunti alla conclusione che è chi scrive la mia storia che ha qualche problema serio.

 

Nel mondo di Pirandello la realtà non esiste, la vita che viviamo è una messa in scena teatrale. Cosa pensi dell’affermazione di Pirandello?

 

 

  • Penso che Pirandello abbia colto il vero Senso della vita e il rapporto tra la realtà e il teatro, che per me è un grande specchio di fronte al quale la gente si dovrebbe sedere per guardarsi dentro. Ciò che vediamo nelle piece teatrali dei grandi come Pirandello, Eduardo, Moliere sono le nostre stesse manie, ansie, esagerazioni, e attraverso personaggi che sembrano inventati, impariamo meglio a vedere noi stessi, e soprattutto a ridere di noi stessi. La farsa è lo strumento più efficace per cogliere la realtà.

La tua scrittura si presta naturalmente all’adattamento teatrale, i tuoi romanzi sembrano nati per essere messi in scena, da cosa deriva questa tua inclinazione?

  • Questa passione mi fu trasmessa dal mio Maestro delle elementari, Ferdinando Rostan, un secondo padre che trasformò in uno studente quasi modello un bullo cresciuto in una strada abitata da figli di boss della città grigia in cui sono nato, con i quali facevo a botte quotidianamente. In quarta elementare ci chiese di scrivere un racconto sul Carnevale, e il mio fu rappresentato a scuola, riuscendo a far ridere addirittura la preside. Poi ricomincia molti anni dopo, per spirito di sopravvivenza, quando – appena iniziato il mio lavoro di avvocato, dovetti partire per il servizio civile in un paesino di pochi abitanti, in pieno inverno, con un freddo che entrava nelle ossa. L’alternativa era drogarsi o inventarsi una passione per quelle sere gelide. Così nacque il mio primo libro, che fu pure la mia prima commedia: “Finché l’avvocato non vi separi”.

 In un mondo pazzo il vero sano è probabilmente il folle, Erasmo da Rotterdam, in Elogio della Follia, sostiene che La Follia rappresenta l’unica guida per accedere alla vera sapienza: poiché tutte le passioni, tutti gli umani errori e tutte le umane debolezze, rientrano nella sfera della Follia. Oggi pare sia diventato un mantra il motto di Steve Jobs: “stay hungry stay foolish”, che è un plauso a rimanere avidi di passione e monito a pensare in maniera non convenzionale e senza condizionamenti. Chi sono per te i folli rivoluzionari che tu rendi protagonisti nel tuo giallo?

  • I folli rivoluzionari, protagonisti di Giallo sapevo, sono un gruppo di cittadini che si ribellano ai due Stati paralleli. Una rivoluzione non violenta contro la politica e la camorra, cercando di far partorire per una volta un accordo tra Stato e criminalità organizzata che possa portare benefici alla gente che non riesce più a pagare tasse e pizzo. Una rivoluzione fatta con l’acqua anziché con il fuoco, e che attraverso rapimenti rocamboleschi riesce ad ottenere l’attenzione di chi di potere, e anche dei cambiamenti poco auspicabili.

 Elogio della Follia è un’opera che Erasmo da Rotterdam dedica a a Tommaso Moro, autore dell’Utopia, credi che in un mondo balordo come questo dove sembra che il successo sia appannaggio di chi incarna disvalori, sia anacronistico parlare di Utopia?

  • Utopia è la città in cui mi piacerebbe vivere. La città grigia in cui sono cresciuto somiglia più a Gotham, ma senza Batman. Purtroppo, oggi i disvalori sono i valori più apprezzati. Decine di influencers sono riusciti a creare milioni di deficienters. La società, come aveva previsto Ennio Flaiano in tempi non sospetti, è diventata ciò che la Tv voleva che diventasse. Armi di distrazioni di massa hanno sterminato un popolo di poeti, pittori, musicisti eccelsi in un paese in cui gli idoli della gente sono personaggetti trash e protagonisti di trasmissioni volgari e di una banalità senza precedenti. La totale mancanza di contenuti, probabilmente, ha portato il passaggio allo schermo piatto. La tv, tra le principali responsabili di questa pericolosa involuzione, anziché cercare di informare e aiutare a crescere il pubblico, si è abbassata al livello dello spettatore medio, che ride per parolacce o per idiozie, e che si appassiona a storie violente e a stalk show in cui si gioca sulla spettacolarizzazione del dolore.

 

 

Nel tuo giallo umoristico c’è un personaggio che si chiama Maradona; la leggenda che ancora vive nei ricordi, negli aneddoti, nei murales, nell’immaginario di Napoli e del suo popolo trascendendo il semplice concetto di leggenda sportiva e trasformandosi in un fenomeno culturale e emotivo che permea ogni angolo della città.

Cosa credi che ci abbia insegnato Maradona?

  • Nel romanzo parlo di Diego uomo. Del campione sarebbe stato troppo facile parlare e lo hanno già fatto in molti. Parlo dell’uomo che ha sbagliato così come sbagliamo tutti noi, ma che – dopo che tutti lo hanno creduto morto – torna nella sua città per aiutare i ragazzi a non cadere nei suoi stessi errori. Allo stesso tempo, colgo l’occasione per scusarci con Diego di un grande errore della Giustizia Tributaria italiana, che lo ha fatto passare per un maxi evasore, per un avviso di accertamento che, di fatto, non glie era mai stato notificato, per un tributo per il quale i suoi compagni di squadra Careca e Alemao avevano avuto possibilità di fare ricorso e avevano vinto! Questo libro ho finito di scriverlo un anno prima del terzo scudetto e Lui era tornato a Napoli anche per festeggiare con il suo popolo, perché Lui Giallo sapeva che sarebbe successo il Fatto.

Nel tuo romanzo si fa riferimento più volte a capolavori dell’arte: alla cappella San Severo, ad opere come la Pudicizia di Corradini, al Disinganno di Queirolo.

 In che rapporto sei con l’arte?

  • Fino a qualche anno fa ero profondamente ignorante in materia, come l’agente Palumbo del romanzo, che il Commissario Monteruscello, grande appassionato d’arte, durante le indagini di polizia, porta in giro per Napoli a indagare anche sulla storia della Bellezza di Napoli. Per farti capire come stavo combinato, una quindicina di anni fa, quando decisi di dare colore a casa mia, che sembrava un ospedale in cui ero ricoverato, feci una ricerca su internet per trovare qualche quadro astratto, dopodiché andai in un’importante galleria d’arte di Santa Maria Capua Vetere e chiesi se avessero qualche quadro di Kandinsky e di Pollock. Mi guardarono e cercarono di capire se fossi un miliardario o un pazzo. Ero semplicemente ignorante. Però alcuni degli autori accessibili su cui puntai, i cui dipinti costavano poche migliaia di euro ora hanno decuplicato il loro valore. E sono certo che se fossi nato quando Kandinsky era giovane, ora avrei diverse opere sue in casa.

 Gandhi portò all’attenzione mondiale la sua causa, la lotta contro l’ingiusto dominio britannico, con metodi rivoluzionari basati sul totale rifiuto della violenza, come la disobbedienza civile e gli scioperi della fame. Nel romanzo scrivi satiricamente della camorra, dell’avvelenamento delle falde acquifere, e di altri espedienti illegali.

Secondo te è possibile una rivoluzione non violenta, e quali “armi” sono più efficaci per raggiungere obiettivi concreti?

La rivoluzione di Vesuvio e degli altri folli, in effetti, è stata ispirata proprio dalla rivoluzione non violenta di Gandhi. Nella storia che ho inventato, i rivoluzionari hanno solo pistole ad acqua, e non solo non muore nessuno, ma – alla fine della storia – se si contano i protagonisti, ne troviamo uno in più, che resuscita. La rivoluzione non violenta è indispensabile e indifferibile. Nel libro, si adottano soluzioni un po’ troppo drastiche, i commercianti – ad esempio – abbassano le saracinesche sine die, per opporsi a tasse non più sopportabili, che vanno ad aggiungersi al “canone” per la sicurezza che sono costretti a pagare allo Stato parallelo, da cui non sono tutelati. Appena trovo dei sistemi più realistici, la faccio per davvero la rivoluzione. Del resto, a Napoli siamo riusciti a cacciare

  • gli invasori tedeschi in quattro giornate. Gli altri che si sono illusi di averci dominati, dai romani ai greci, dagli etruschi agli spagnoli, in realtà li abbiamo fatti accomodare noi, e li abbiamo messi a lavorare, facendo credere loro di comandare. In realtà, questi grandi popoli che si sono alternati nella storia ci hanno lasciato un patrimonio artistico che ci invidia il mondo.

L’effetto comico dei tuoi racconti è sortito anche attraverso l’uso del dialetto napoletano. Il 4 Gennaio si è celebrato il decennale della morte di Pino Daniele, 2 anni fa Massimo Troisi avrebbe compiuto 70 anni, il film documentario “Buon compleanno Massimo” è il racconto di un fuoriclasse della comicità che faceva della sua napoletanità un punto di forza. Nel teatro di Eduardo Napoli il suo dialetto e le sue usanze diventano universali per raccontare tutto il Paese.

 Quanto pensi che il dialetto napoletano che ha assorbito l’humus popolare abbia a che fare con la poesia, il comico e il tragicomico?

-La lingua napoletana credo che sia quella più adatta per la poesia e per la canzone perché il sentimento e il linguaggio dei partenopei contengono poesia anche nelle espressioni più semplici. Non c’è bisogno di inventare frasi ad effetto, la lingua napoletana riesce ad emozionare con le parole di uso comune. La “m” in più, per esempio, che si usa per dire Amore, dà la misura di un sentimento diverso, più profondo. Non la prendano a male i bergamaschi o i russi, ma i napoletani amano con un’intensità senza pari al mondo.

Il colore del napoletano lo rende la lingua ideale anche per il teatro e il cinema, sia comico che tragicomico. Espressioni che non possono avere una traduzione fedele in nessun’altra lingua riescono a  far ridere anche uno di Bolzano che riesce a divertirsi pur senza capire una parola. Ma il linguaggio partenopeo è fatto anche di gesti, che – sapientemente usati – accompagnando il discorso lo rendono comprensibile anche ai babilonesi. Nonostante fossi stato rimandato due volte in inglese, in quinto liceo mi fidanzai con una insegnante australiana di madre lingua inglese, e dopo venti giorni, lei parlava correttamente in napoletano e mi capiva benissimo.

 

 

 

Nel tuo romanzo c’è anche un riferimento ai fratelli De Filippo che “come ogni settimana, rinnovano la denuncia di smarrimento del teatro”.

La narrazione di Eduardo si sviluppa su dei malintesi, fraintendimenti; col suo tragico umorismo denuncia il contesto socio culturale, aprendo la strada al neorealismo nel cinema.

Quanto dell’arte di Eduardo c’è nella tua scrittura? E credi davvero che il teatro viva un periodo storico buio?

  • Sono cresciuto guardando le commedie di Eduardo, purtroppo solo in tv.. Grazie a Dio, ne abbiamo numerose testimonianze. Così come ho studiato i film di Totò e Peppino, quelli di Massimo Troisi. Da bambino li guardavo perché mi facevano ridere, ora li rivedo per studiare. Loro rappresentano i classici a cui attingere per chi ha la passione per la scrittura. L’immensa grandezza della scrittura di Eduardo e di Troisi si evince dal fatto che le loro commedie sono attuali a distanza di decenni, e riescono a far ridere anche i miei giovanissimi nipotini. Totò, invece, improvvisava scene indimenticabili al momento, partendo da testi scritti da altri. Sono loro i principali responsabili d questa mia grande passione. Il teatro vive un periodo buio da quando attori mediocri hanno pensato di poter diventare anche autori, e – anziché studiare i classici – hanno pensato di fare gli autodidatti. Ma soprattutto perché esistono delle lobbies anche nel teatro. Ci sono tanti attori e autori bravi a Napoli, ma non è facile entrare nel circuito. Certi finanziamenti distribuiti in maniera non meritocratica rendono superflua la presenza del pubblico, e quindi si mettono in scena spettacoli che nessuno pagherebbe mai per vedere. Man mano il pubblico si è appiattito, e successivamente il nuovo teatro si è appiattito al livello del nuovo pubblico. Uno degli ultimi testi che ho scritto è “Insegua quel teatro”, in cui racconto di un teatro che scappa dal pubblico. La domanda è: i teatri chiudono perché la gente è troppo impegnata sugli asocial network o la gente non va a teatro perché non ci sono più i fratelli De Flippo, Nino Taranto, Pupella Maggio? Io mi ritengo fortunato, perché per puro caso ho iniziato a scrivere per Gino Rivieccio, che da sempre mette in scena il tipo di teatro che piace a me, scevro da volgarità e banalità. Ridere per far ridere non serve. L’ironia, l’arte della maieutica di Socrate, deve servire per far nascere la verità.

La tua inesauribile leggerezza nel raccontare che ti porta fatalmente ad incamminarti sulla difficile strada del comico o della più “leggera” ironia, privilegia il registro burlesco anche quando l’argomento è serio.

Come mai questa scelta che rappresenta per te un’esigenza quasi insopprimibile?

  • Gli argomenti seri, purtroppo, annoiano. Il pubblico perde l’attenzione. Nella migliore delle ipotesi, si addormenta. Soprattutto dopo che hai superato i due minuti, tempo massimo imposto dalle nuove frontiere di Tiktok.

 

 

 

 

 

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