Letteratura

Daria Menicanti, poeta da riscoprire

18 Gennaio 2024

L’opera  completa di Daria Menicanti (con tutte le poesie inedite, diverse prose, una ricca bibliografia e una scelta di ritratti fotografici), pubblicata da Mimesis nel 2013, è arrivata dieci anni fa a colmare un vuoto, assolvendo al dovere intellettuale di presentare al pubblico italiano la pregevole produzione di un’autrice schiva e immeritatamente trascurata dalla critica, fatta eccezione per alcuni importanti nomi di letterati che se ne erano occupati negli anni ’60, agli esordi della sua attività (Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Lalla Romano). Il corposo volume di oltre ottocento pagine, intitolato Il concerto del grillo, è introdotto da due appassionati saggi di Fabio Minazzi e Silvio Raffo, e da un’affettuosa nota di Brigida Bonghi, che si è occupata della trascrizione e digitalizzazione di tutto il materiale raccolto.

Daria Menicanti è nata a Piacenza nel 1914, sesta figlia di un bancario toscano antifascista e di una maestra fiumana, e dopo frequenti trasferimenti a seguito della famiglia si è stabilita a Milano, dove ha trascorso la maggior parte della vita, insegnando e occupandosi di traduzioni, soprattutto dall’inglese. Laureatasi in Estetica su John Keats, è stata sposata con il filosofo Giulio Preti dal 1937 al 1954, in un’unione burrascosa ma vitale e reciprocamente arricchente. Insieme, i due coniugi facevano parte della cosiddetta “Scuola di Milano”, animata e promossa dal pensatore razionalista Antonio Banfi, che riuniva personalità di rilievo come Enzo Paci, Remo Cantoni, Dino Formaggio, Luciano Anceschi, Luigi Rognoni, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Maria Corti, insieme a molti altri poeti e intellettuali. Cresciuta in questo stimolante ambiente culturale, Daria Menicanti approfondì lo studio di letterati e filosofi internazionali, iniziando a pubblicare i propri lavori piuttosto tardi, in seguito alla separazione dal marito, dopo aver recuperato un’autonomia creativa personale prima trattenuta. I primi tre volumi di versi uscirono da Mondadori tra il 1964 e il 1978, sotto l’egida e l’affettuosa cura di Sereni: in seguito, solamente editori minori si interessarono alla sua opera, che giustamente questo importante volume, finanziato dal Centro Internazionale Insubrico e dall’Università dell’Insubria, ha voluto recuperare.

La scrittura menicantea ha patito sottovalutazioni e fraintendimenti, in parte determinati anche dal carattere spigoloso, riservato e severo della poeta. I suoi versi sono stati accostati, per la limpidezza e la semplicità, a quelli di Umberto Saba, oppure accomunati alla trasognante trasparenza di Sandro Penna o ancora alla giocosità di Palazzeschi. In realtà, nulla appare in essi di estemporaneo o ingenuo, essendo invece estremamente sorvegliati nella forma, curati nella scelta lessicale, ricercati nell’impiego delle allitterazioni, pur nel rifiuto di qualsiasi astuzia sperimentale. Soprattutto concettualmente lucidi, animati da una criticità razionalista più orientata all’illuminismo che al romanticismo. Certo, amore e morte sono argomenti predominanti, ma affrontati con un’attenzione antiretorica, e corretti da una forte dose di ironia e autoironia. Temi privilegiati sono la descrizione degli ambienti, in particolari urbani e periferici, con i personaggi che li animano (il primo libro si intitola infatti Città come), quindi l’analisi dei rapporti interpersonali e l’esplorazione del proprio mondo interiore, e infine un variegato bestiario, a cui dedicò nel 1986 l’antologia di Altri amici. Al suo amatissimo Fuchs riservò la citazione di Caninamente: “… e lui mi aspetta e accompagna nei luoghi / deliziato. La sua corte remota / generica e all’antica / teneramente comica è sul punto / sempre di lusingarmi. Ti ricordi / cosa diceva quel proverbio inglese? / Quando sei solo / Dio ti manda un cane”. E in Felini esibisce un’anticipatrice sensibilità ecologica: “La lunga tigre lucente, il leopardo fiorito / – la guardinga, la silenziosa grazia – / tuttora ci minacciano / ma della loro scomparsa”. Mentre odora di spietata vendetta questo Epigramma per verme: “Un verme tranquillo e bavoso / d’un roseo infantile fa il traghetto / del viale. / Mi domando perché poi / mi faccia quasi tenerezza… Ah, sì, / è perché ti assomiglia, mio diletto”.

L’ironia, garbata e sorniona, come tratto caratteristico non solo del suo carattere, ma anche della produzione in versi, si evince da molte poesie sparse in tutti i sette volumi pubblicati in vita, in cui offre di sé un’immagine spiritosamente dolente, da estranea al consorzio umano perché a disagio nel rapportarsi agli altri, e insieme espropriata dall’adesione naturale a una semplice, a-problematica fisicità. Si descrive camaleonticamente come un “mite grillo”, “un cane lupino”, “una gatta sottile”, “una che va vestita come capita”, paragonandosi alla pioggia, a una nuvola, a una siepe recisa, a un palloncino: senza mai voler far cambio con altre vite, senza invidiare successi, soldi, riconoscimenti.

Tra i suoi ironici autoritratti, possiamo rileggere Di zitella, tratto da Un nero d’ombra (1969): “Dio era distratto quando nacqui. Pose / nel nido delle mie costole asciutte / un cuoricino di zitella inglese. / Sbagliò, certo. Così il mio illuminismo / si scontra spesso con le irrazionali / pretese dell’involontario muscolo. / E quando tutti sono lieti a Pasqua / e nelle feste natalizie, io soffro / atrocemente per gli abeti mozzi / i pini uccisi… E il museo roseobianco / degli agnellini fitti nelle ceste / mi fa fuggire stretta e singhiozzante”. Oppure Poeta, da Poesie per un passante (1978): “In giro me ne vado come un cirro / silenzioso color ombra. Mi piace / stare alto sui tetti a galleggiare / guardando, io mi sento il palloncino / fuggito dal suo grappolo: una cosa / ironica leggera e all’apparenza / felice”. L’ironia di Daria Menicanti talvolta sfora nella satira, nella critica risentita; altre volte si rifugia nella riflessione filosofica e in pacate meditazioni, come in La Verità: “Da sotto spinge il coperchio del pozzo / la bianca prigioniera. Un’improvvisa / voglia l’ha presa di sole e di vento. / Ed eccola – libellula tremante / di freddo e solitudine – posata / sull’orlo. Ma nessuno / che si faccia vedere con lei / così straniera così nuda priva / di sorrisi e di perdoni”.

I versi per il marito Giulio Preti, grande amore e grande dolore della sua vita, sono raccolti nell’ultimo volume Canzoniere per Giulio del 2004, introdotto da una lunga prosa che riassume la vita trascorsa insieme (“Fin dagli inizi infatti tra noi ci furono scontri ed impennate, si alzarono muri di silenzio: tutti e due scotevamo furiosamente la catena, in particolare io che mi dolevo prigioniera di un uomo, sia pur di eccezione, ma estremamente possessivo e geloso”). Quindi una trentina di composizioni, e tra queste Epigramma VIII: “Dopo tanto odio ti ricordo infine / con animo fraterno / e ti perdono / il bene che mi hai fatto”, per cui Vittorio Sereni, amico di una vita, ha voluto scrivere: “Un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscìo, in un canzoniere di morte”.

Gli ultimi anni di Daria Menicanti furono segnati da lutti e malattie, ma anche dal calore di “rari amici scontrosi”, e dal riavvicinamento alla famiglia d’origine, e in particolare alla nipote Lucia Pezzini, che non solo si occupò di conservare e catalogare tutta la sua opera, ma la accolse in casa durante l’invalidante malattia psichica, fino all’inevitabile ricovero in una clinica a Mozzate, in provincia di Como, dove la poeta morì il 4 gennaio del 1995.

 

 

DARIA MENICANTI, IL CONCERTO DEL GRILLO – MIMESIS, MILANO 2013, p. 813

A cura di Brigida Bonghi, Fabio Minazzi, Silvio Raffo

 

 

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