Letteratura
Dalle ceneri nasce un talento
In un recente saggio pubblicato sulla rivista Culture Teatrali, la studiosa Rosaria Ruffini ricorda il lungo legame di Peter Brook con l’Africa.
In Africa, diceva il regista inglese ma ormai francese d’adozione, tutto è invisibile. E per uno come lui, amante dello spazio vuoto e dell’invisibilità, la fascinazione di rendere visibile ciò che non appare, è stata un costante motore di indagine e investigazione. Rosaria Ruffini ricorda le tappe principali della lunga frequentazione africana di Brook: il viaggio negli anni Settanta, da poco inaugurato il Centro di Ricerca al Bouffes du Nord, attraverso il Sahara, il Benin, la Nigeria; l’allestimento di Les Iks, nel 1975; poi l’incontro con la grande drammaturgia sudafricana: Athol Fugard o Can Themba, solo per citarne due.
Infine l’arrivo dei grandi attori africani, come Mamadou Dioume, Bakary Sangare o lo straordinario e indimenticabile Sotigui Kouyaté.
Forse ve lo ricordate nel Mahabarata, o come Prospero ne La Tempesta: Sotigui portò alla compagnia di Brook l’essenzialità, la semplicità, la mirabile capacità di rendere ogni semplice gesto necessario. Di rendere visibile l’invisibile.
E se, a lungo – forse troppo a lungo – abbiamo visto attori bianchi tingersi il volto di nero per fare Otello, il “moro” di Venezia (anni fa un bel libro di Shaul Bassi raccontava la “ricezione” di Otello sulle scene italiane e internazionali) finalmente, anche grazie a Peter Brook e ai suoi attori, le cose sono cambiate, e possiamo vedere un attore nero fare Amleto, dando vita a quella “distribuzione planetaria”, cara a Brook, che non pensa al colore della pelle: per cui un giapponese può fare un personaggio sudafricano o un italiano può fare un eroe indiano.
Allora, anche sui nostri palcoscenici principali, abitualmente restii ad ogni cambiamento, si affaccia timidamente una nuova generazione di interpreti: come non ricordare, qui, esempio emblematico e caro, l’arte meravigliosa di Mandjaye N’Djaye, anima del Teatro delle Albe di Ravenna?
Al Fabbricone di Prato, allora, abbiamo scoperto un vero, nuovo, talento.
Un giovanissimo interprete, magnetico protagonista di Dalle Ceneri, poema di Tahar Ben Jalloun messo in scena da Massimo Luconi.
Luconi da tempo lavora anche in Senegal, a St Louis, in un laboratorio pluriennale con attori locali. Qui ha scovato, e in parte formato, anche Ibrahima Diouf, 22 anni e già grandi doti attorali.
«Una delle caratteristiche del teatro in Senegal – racconta Luconi – risiede nell’estrema diversità della formazione degli artisti e delle forme che assume oggi il teatro. Alcuni sono autodidatti, che si muovono con libertà di espressione nel teatro popolare, della tradizione della cultura dell’Africa, altri sono professionisti nel senso moderno del termine e si sono formati nelle scuole o hanno frequentato stage e percorsi di formazione internazionali. Ibrahima è un giovane con tutte le caratteristiche dei giovani di oggi, internet, telefono, facebook, ama la musica moderna e gli abiti alla moda, ma conosce e vive tutta la cultura dei suoi antenati: in Senegal non è avvenuta quella frattura fra tradizione e modernità come da noi in Italia e Europa».
Dopo tre anni di laboratorio a St Louis, Massimo Luconi sceglie Ibrahima per il ruolo di Creonte in Antigone, apprezzandone soprattutto la capacità di tenere assieme ritualità e contemporaneità.
«Il teatro tradizionale – continua il regista – è ancora oggi, insieme alla musica, l’elemento che accomuna e amalgama tutta la società senegalese al di là della città moderna. Nei villaggi sperduti del Sahel o nella sterminata periferia di Dakar e di St Louis si fa continuamente teatro, in tutte le occasioni possibili, per le feste, le cerimonie familiari. Ibrahima possiede una grande conoscenza della tradizione musicale religiosa e popolare, e nonostante sia un ragazzo giovane e vivace, in lui non c’è cesura fra vecchio e moderno, ha la stessa cultura e la profonda saggezza dei suoi antenati. È maturato professionalmente quasi in maniera misteriosa, fra il teatro popolare, la scuola e qualche stages con registi stranieri. Negli ultimi due anni oltre al percorso con me, ha partecipato a due workshop a Tunisi, in un master che ha raggruppato i migliori giovani attori francofoni provenienti da tutto il mondo. Un’esperienza molto dura, tipo college, con sveglia all’alba e dodici ore di lavoro, di cui lui è molto fiero».
Nello spettacolo Ibrahima Diouf sorprende: ha tensione, ritmo, cura, presenza. Dice il suo lungo monologo in francese, con eleganza e sapienza. Il regista ha spezzettato il poema nella parte introduttiva e in quella conclusiva, chiamando in causa gli altri attori-testimoni (questa volta in italiano), Ndiawar Diagne, Marie Madaleine Mendy, Mamadou Saye e Jean Guillaume Tekagne.
Diouf fa emergere i lati dolenti, sospende il tempo del racconto togliendolo dagli aspri rimandi alla contemporaneità di un canto che pura evoca la Guerra del Golfo. Il poema scritto da Tahar Ben Jelloun, anche se parte da là, dal Tigri e dall’Eufrate, dalla sabbia del deserto che si fa cenere per i troppi morti, si allarga poi ad abbracciare i tanti, troppi morti delle guerre dei nostri tempi: ricorda lo strazio di ciascuno, lo racconta, in una lingua alta, civile, eppure amabilmente poetica. Lo spettacolo di Luconi, ridotto all’essenzialità di uno spazio bianco, vuoto, allude poi – anche nell’uso di immagini – alle ultime battaglie di chi è costretto a fuggire, di chi deve scappare dalla violenza, dalla miseria, dalla fame e deve attraversare il mare, per poi tornare a combattere – in guerre diverse, di parole e “civiltà” – per sopravvivere. Durante lo spettacolo pensavo alla storia di Ibrahima, al suo essere qui, a far teatro: non credo abbia alle spalle storie tragiche di emigrazione, se non forse la consapevolezza di un Continente troppo sfruttato e spesso abbandonato. Ma quegli occhi, con cui guarda noi seduti in platea, raccontano tante storie.
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