Lavoro
Dalla lotta partigiana alla lotta al Parmigiano: gli intellettuali italiani oggi
Da qualche giorno infuria sui social media, e non soltanto su di essi, una cacofonica polemica sullo spot del Parmigiano Reggiano. Così cacofonica che la sua eco è giunta sino alla plaga montana (non sufficientemente remota, è evidente) dove lo scrivente vive e vegeta. Al bar del paese un giovane agricoltore commentava con sarcasmo senza dubbio grossolano ma efficace l’indignazione degli “intellettuali comunisti [sic] che scoprono l’acqua calda”: il formaggio non cresce sugli alberi, e i casari lavorano sodo “da che mondo è mondo”.
Una premessa doverosa: lo spot è, a mio modesto parere, molto mal riuscito. Una mia anziana, savia parente ha osservato che sarebbe bastato farlo vedere a un gruppetto di postini, gelatai, segretarie, camerieri e commesse per “capire che non va per nulla bene”. La cosa interessante, però, è che ciò che attira di più i fulmini della mia anziana parente, così come del giovane agricoltore, non è lo stacanovismo del povero Renatino, che anzi con quegli occhi mansueti piace alla matriarca, ma la condiscendenza ridanciana degli amigos, tutti giovani, belli, educati e che “si credono ‘sto ca**o” (sto citando, in questo caso, mia moglie, che ha sangue e perentorietà dell’Italia centrale, e per anni ha fatto la cameriera e la commessa).
Il fatto ahimè è che milioni di italiani sgobbano tanto, tantissimo, troppo. Non c’è bisogno di scomodare l’Istat, l’OCSE o qualche altro augusto consesso di statisti ed econometristi per sapere che i più stacanovisti d’Europa vivacchiano in due paesi mediterranei, Italia e Grecia. Chi ha lavorato anche solo pochi mesi in un’officina, un ufficio, una fabbrica, un negozio sa che chi comanda (alias principale, titolare, boss, responsabile, store manager, capo, partner, padrone) vuole – anzi: dà quasi per scontato – che il lavoratore (dipendente, collaboratore, stagista, falsa partita IVA, praticante) lavori molto più di quanto previsto ed eventualmente contrattualizzato. È un destino amaro che colpisce tutti: i giovani avvocati (“Come, sono le 18 e già te ne vai? Oggi mezza giornata?”) come le commesse, i magazzinieri come le tecniche di laboratorio (“Certo che se Pasteur non avesse lavorato nei weekend come te…”).
Lavorare tanto, pagati poco. Con un panorama così sconfortante, si comprende perché milioni di italiani non si scandalizzino troppo per l’infelice situazione del povero Renatino, che non ha mai visto il mare o i boulevard di Parigi e tuttavia è felice. Le italiane, soprattutto, lavorano davvero 365 giorni all’anno, considerando che su di loro grava anche la grandissima parte dell’attività di cura familiare e lavoro domestico. E moltissimi, sia maschi che femmine, lavorano non soltanto nei giorni feriali ma anche festivi, perché è prassi di numerosi datori di lavoro assegnare di venerdì incarichi e compiti da portare a termine entro il lunedì mattina, e a meno che uno non voglia dormire solo un paio di ore nella notte a cavallo tra la domenica e il lunedì, nel corso del fine-settimana deve rispondere a email, scrivere report, preparare slide, ultimare bozze, rifinire pezzi (sia in senso letterale che figurato), rivedere progetti.
Lo spot del Parmigiano è finzione, e come tale dice molto di più sugli artefici di tale finzione che sulla filiera del prelibato formaggio. Nella realtà, per esempio, nessuno può entrare in un’area dove si lavora un alimento senza indossare cuffiette, guanti, mascherine, soprascarpe, camici ecc.
Stefano Fresi, uno degli attori dello spot (tratto, per essere precisi, da un mediometraggio a scopo promozionale), ha ragione quando ricorda che non si tratta di un documentario. È solo uno spot, di cui Fresi è uno degli interpreti, e di cui qualcuno ha scritto i testi, qualcun’altro ha diretto le riprese ecc. In altre parole è finzione, e come tale dice molto di più sugli artefici di tale finzione che sull’ambientazione della finzione, cioè la filiera del prelibato formaggio (per esempio, nella realtà nessuno può entrare in un’area dove si lavora un alimento senza indossare cuffiette, soprascarpe, camici, mascherine, guanti ecc., e l’idea di improvvisare un balletto in tale area è fantascienza).
Ecco, a mio parere lo spot è interessante proprio perché ci consente di conoscere un po’ meglio la concezione che molti creativi di successo hanno del lavoro non-creativo in Italia. È una sorta di enorme lapsus che getta una luce inedita non solo su come il mondo del lavoro viene raccontato in Italia, ma su come funziona l’industria culturale italiana.
Gli autori e il regista dello spot sono professionisti rispettati nel loro ambiente, gente capace che conosce bene il suo mestiere. Ma padroneggiare, per esempio, le tecniche di sceneggiatura e le pratiche di regia non significa assolutamente conoscere l’oggetto del mediometraggio: il mondo del lavoro in un segmento della produzione lattiero-casearia italiana. Qui c’è il primo punto degno di nota di tutta la polemica, a mio parere. Il distacco tra intellettuali e lavoratori.
Autori, regista ecc. sono senz’altro parte di quella che un tempo non lontano veniva chiamata intellighenzia. Ebbene, dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta, per svariati motivi (inclusa la poderosa influenza del Partito Comunista Italiano) l’intellighenzia nostrana era composta da uomini e donne che al tema del lavoro non-creativo dedicavano anni di studio e riflessione, e che non cercavano la semplice imitazione, ma l’assimilazione, per citare Ottiero Ottieri. In letteratura, per esempio, sfavillano opere come “La chiave a stella” di Primo Levi, “La morte in banca” di Pontiggia, “Memoriale” di Volponi, “La vita agra” di Bianciardi, “Donnarumma all’assalto” del summenzionato Ottieri, “Una visita in fabbrica” di Vittorio Sereni, per non parlare di Calvino e Vittorini. Quanto al cinema, anche un uomo di scarsa cultura filmografica come il sottoscritto ha visto “La classe operaia va in paradiso” di Petri, “Romanzo popolare” di Monicelli, “Mimì metallurgico ferito nell’onore” della Wertmüller, “Un certo giorno” di Olmi, “Il ferroviere” di Germi.
Prima ho citato il PCI, e la sua influenza sulla vita culturale di quei tempi. A differenza del PD, il PCI aveva il suo granaio di voti nella classe operaia; certo, anche molti intellettuali lo sceglievano nel segreto delle urne, ma senza le tute blu che lo sostenevano en masse, il PCI forse avrebbe avuto meno voti del Partito Liberale. Ma non tutti gli intellettuali che ho menzionato erano comunisti, e in ogni caso il loro interesse profondo e attento per il mondo del lavoro non-creativo non scaturiva soltanto dall’adesione a una filosofia politica, allora peraltro assai in voga. Era l’interesse sincero di uomini e donne che tributavano al lavoro – in fabbrica, in ufficio e nei campi – la massima dignità, e che vedevano in esso una cifra essenziale dell’esperienza umana (nel bene e soprattutto nel male, perché il tema dell’alienazione sul luogo di lavoro è affrontato da molte delle opere citate). Uomini e donne che volevano capire davvero cosa pensassero e come vivessero contadini, tornitori, mondine, meccanici, cassiere. Era una forma di umanesimo.
L’interesse degli intellettuali italiani del secondo dopoguerra per il lavoro non-creativo era l’interesse sincero di uomini e donne che tributavano al lavoro – in fabbrica, in ufficio e nei campi – la massima dignità. E che volevano davvero capire le idee e le vite di contadini, tornitori, mondine. Era una forma di umanesimo.
Il lavoro al tornio o al telaio non era banalizzato, né rappresentato in maniera semplicistica. Quegli intellettuali sapevano di cosa scrivevano e giravano (Volponi, del resto, lavorò sia in Olivetti che in Fiat, Ottieri in Olivetti). Si può dire lo stesso degli intellettuali degli ultimi trent’anni? Salvo poche eccezioni (tra le più note Eugenio Raspi, Ermanno Rea, Gad Lerner) nell’Italia di oggi il lavoro non-creativo è oggetto di un numero limitato di opere. I film e i romanzi che parlano di lavoro tendenzialmente narrano le vite (precarie e/o di successo) di avvocati, grafici, attori, registi, pubblicitari, giornalisti, medici, romanzieri, insegnanti di liceo e università, psicologi, broker, agenti immobiliari, artisti, architetti, PM, PR, imprenditori, musicisti, conduttori TV e DJ.
Colpa della terziarizzazione dell’economia? Certo. Ma di bancari, cassieri, camerieri, maestri, contabili, assicuratori, segretari, fattorini, salumieri, impiegati, bidelli, geometri, assistenti sociali, infermieri, periti chimici si parla sempre poco (e male); le “professioni mito”, sia chiaro, esistevano anche negli anni Settanta, ma oggi si ha la sensazione che esistano solo quelle, a giudicare da molti film e romanzi nostrani. E naturalmente si parla poco (e male) di protagonisti del primario e secondario come tornitori, disegnatori CAD, coltivatori, saldatori, apicoltori, elettricisti, programmatori, fresatori, muratori, ingegneri idraulici, magazzinieri, imbianchini, carpentieri, piastrellisti ecc.
Nell’intimismo autoreferenziale borghese che è la cifra di così tanti libri, fiction e film italiani, la cena tra amici benestanti e acculturati (il primario, la grande firma, l’avvocatone…) è un topos, e l’ambientazione borghese e opulenta è un must (non mi si crede? Si dia un occhio agli interni, agli abiti, ai mirabolanti panorami romani o milanesi che si intravedono da balconi e finestre, alle vacanze da sogno che i protagonisti si concedono).
Personalmente sono convinto che gli autori e il regista dietro lo spot del Parmigiano Reggiano non soltanto non abbiano mai lavorato in una fabbrica, un magazzino o un’azienda agricola, ma non frequentino minimamente quei milieu. Non è una colpa, sia chiaro. Ma nemmeno un merito. Casomai un’occasione persa. Eviterei però il linciaggio, e anche qui ha ragione Fresi.
Forse è una coincidenza, ma l’unico film recente che ho visto ambientato in una fabbrica e dove l’operaio è il protagonista (e non una povera comparsa grottesca o macchiettistica) era “Made in Italy”, diretto da quel Bruce Springsteen de noartri che è Luciano Ligabue, che nella natia Correggio – mi dicono – continua a frequentare i posti dei “comuni mortali”.
Il divario tra industria culturale e industria (tout court) è enorme. Gli intellettuali conoscono al massimo i lavoratori creativi, non da ultimo perché dalle loro fila talvolta provengono, ma sanno poco o pochissimo dei lavoratori non-creativi. Ecco perché otto film e romanzi su dieci, specie di registi e scrittori affermati, hanno come protagonisti scrittori, attori, professori, DJ, giornalisti e altri esponenti delle professioni mito? Ma di che stupirsi? Uno tende a scrivere, girare, parlare di ciò che è (o è stato), o di chi conosce. Se può consolare anche editor, uffici stampa, PR, social media manager, art director, traduttori, fotografi ecc. ignorano il mondo delle tute blu e di molti colletti bianchi. Sono, quasi tutti, intrinsecamente elitari.
Autoreferenzialità è la parolina magica, che ignoranti e demagoghi di destra traducono nel marchio dell’infamia: radical-chic. Tuttavia è difficile dare torto ai barbari quando accusano molti intellettuali di sinistra di perbenismo ipocrita: il perbenismo ipocrita è quanto resta di una tradizione borghese che ha perso, negli ultimi decenni, quasi ogni battaglia culturale e sociale (per colpa non della critica di sinistra, sia chiaro, ma dello tsunami consumista). E in un’Italia dove la borghesia si sta estinguendo (la piccola borghesia è in caduta libera, la grande briga per agganciare la dorata classe dei rentier), molti intellettuali di sinistra sono neo-borghesi un po’ a disagio con la loro identità: da qui il perbenismo ipocrita, vecchio arnese (ereditato dai padri medici o dai nonni artigiani) che hanno rimesso a nuovo, come un’antica cascina nella campagna toscana (curiosamente, i neo-borghesi di provincia tendono a farsi meno problemi; e questo forse spiega la loro bizzarra passione per le bretelle, gli abiti su misura, certe pose ottocentesche, gli sport virili che fanno tanto Eton e Oxbridge, il laissez-faire d’antan).
In un’Italia dove la borghesia si sta estinguendo, molti intellettuali di sinistra sono neo-borghesi un po’ a disagio con la loro identità: da qui il perbenismo ipocrita, vecchio arnese ereditato dai padri o dai nonni.
Se il lavoro era così spesso sotto la lente di ingrandimento degli intellettuali del nostro passato prossimo, era anche perché molti di essi avevano fatto la Resistenza. La lotta partigiana. Non dimentichiamo l’articolo 1 della nostra Costituzione, che è figlia della Resistenza; esso recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Calvino, Primo Levi, Volponi, Vittorini furono partigiani, Bianciardi si aggregò a un reparto alleato. E anche chi partigiano non fu, per età o casi della vita, era comunque spesso intriso dei valori e delle narrazioni fioriti durante e dopo la lotta partigiana.
La lotta partigiana, così come la militanza politica e l’impegno civile che a essa subentrarono, furono straordinarie fucine di maturazione sociale degli intellettuali italiani. Italo Calvino, per esempio, fu un militante del PCI e un collaboratore dell’Unità e di Rinascita; Primo Levi si dedicò con grande impegno al dialogo con i giovani e con il pubblico; l’impegno di Vittorini nel PCI, nel PSI, infine nel Partito Radicale è noto, così come sono note le prese di posizione (spesso scomode e perigliose) di registi come Monicelli, Germi, Petri. Essere comunisti negli anni ’50, o rompere con i craxiani negli anni ’80, o pubblicare un libro critico verso la Olivetti quando si lavorava per Olivetti (che per fortuna era un imprenditore davvero illuminato), non era consigliabile da un punto di vista meramente professionale. Ma d’altro canto non era così facile spaventare chi aveva rischiato di farsi torturare dai repubblichini, o di essere rastrellato dai tedeschi…
Qui c’è il secondo punto degno di nota, a mio modestissimo parere. Gli intellettuali italiani di oggi tendono a tenersi ben lontani dalla militanza politica, da un impegno civile che vada al di là al generico supporto di questa o quella buona causa (specie se ecumenica e/o innocua), o dell’occasionale endorsement di questo o quel politico simpaticamente di centrosinistra. Se essi combattono battaglie, sono battaglie smart: locali da un punto di vista geografico e/o circoscritte quanto a obiettivo, improntate al pragmatismo quando non alla ricerca di visibilità a buon mercato (e che male c’è a ricevere un po’ di attenzione dai media? È forse un delitto sgomitare per un’ospitata in TV?).
Gli intellettuali italiani di oggi tendono a tenersi ben lontani dalla militanza politica, da un impegno civile che vada al di là al generico supporto di questa o quella buona causa (specie se ecumenica e/o innocua).
Se gli intellettuali del dopoguerra avevano rischiato l’osso del collo nelle battaglie contro i nazifascisti, le battaglie combattute dai loro eredi del XXI secolo sono digitali, come è giusto nell’era della cyberwar. Sono battaglie su Facebook, Twitter e Instagram, che difficilmente intralceranno la carriera di chicchessia, e più che nemici procureranno qualche hater imbecille. Battaglie di hashtag e tag. Battaglie che non portano via troppo tempo, e che spesso si concentrano sui codici comunicativi (come l’uso della schwa, o la rappresentazione di un lavoratore in uno spot), da parte di intellettuali che nemmeno sospettano quanto poco interessino queste battaglie a milioni di lavoratrici e lavoratori, che più che alla grammatica sono interessati alla pratica (e non mi si risponda che la grammatica condiziona la pratica, perché questo non fa altro che confermare che è la pratica a contare). E d’altra parte, come potrebbero sospettarlo, dato il divario tra intellettuali e lavoratori non-creativi?
Gli intellettuali di sinistra di oggi tendono a combattere battaglie vacue, che nella sostanza combinano molto poco per i diritti delle donne, dei gay o dei lavoratori, ma che comunque consumano le energie e il tempo di centinaia di migliaia di follower, e saturano il discorso pubblico di chiacchiericcio innocuo vagamente di sinistra, utile per scandalizzare i reazionari e fargli dire: “Vedete? In Italia anche i radicali di sinistra hanno spazio, troppo spazio”. Nel Vangelo sta scritto: li riconoscerete dai frutti. Mentre da anni infuriano le battaglie formalistiche, in diverse regioni del paese l’IVG sta trasformandosi in una missione impossibile, il welfare è sempre più ridotto, i diritti dei lavoratori sono in via di smantellamento; però di schwa e di eteronormatività non si è mai parlato così tanto*.
Quando il rapper Tizio si scaglia contro il politico populista tra un post sulla sua vita dorata e uno sul suo nuovo album, quando la femminista Gaia tuona contro il linguaggio discriminatorio ma si pronuncia poco su quanto sia complesso abortire nelle Marche, quando Sempronio (senz’altro con le migliori intenzioni) combatte sui social media la sua epica lotta contro lo spot del Parmigiano, ricordatevi che si può sempre spegnere lo smartphone, la TV o la radio, e leggere ancora una volta “Marcovaldo”, o “La tregua” (oppure ci si può iniziare a dare una mossa, ma questo è un altro discorso…)
* Chiariamo: io sono favorevole a un linguaggio più inclusivo, e a un approccio più rispettoso nei confronti della comunità LGBTQ+. Ma eviterei di trasformare la riflessione su questi temi in dibattiti astrusi e para-accademici, incomprensibili alla vasta maggioranza degli italiani (laureati inclusi), e di discutere quasi solo di questi temi.
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