Letteratura
Cultura d’eccezione e cultura popolare nell’epoca di Flaubert e nella nostra
L’opposizione tra cultura Alta e cultura Popolare, tra Parnassiani Elitari e scrittori Pop nell’epoca dell’Educazione sentimentale… e nella nostra.
Gustave Flaubert è uno scrittore feroce. È lo scopritore della idiozia intellettuale contro la quale azionerà in tutta la sua vita artistica una speciale e acre ironia. Ancor prima dei nostri giorni in cui l’idiozia intellettuale ha raggiunto consistenze stratosferiche (nei film, nei libri, nei programmi televisivi), Flaubert aveva previsto già nella propria epoca, nella seconda metà dell’Ottocento, l’insufflarsi nelle menti, attraverso il processo di acculturazione di massa, di dosi massicce di “médiocre”, di “poncif” (dozzinale), di quella idiozia proveniente dalla mezza cultura che il critico americano Dwight Macdonald chiamerà negli anni ’50 in America “Midcult” e che da allora si è diffuso come un blob in tutta l’infosfera.
Contro questo pericolo da egli intravisto, Flaubert, a differenza della sua amica “socialista” George Sand, si oppose, da vecchio mandarino borghese, all’istruzione popolare. Perorava di dare ai poveri il pane ma non l’istruzione. Preconizzava che con l’istruzione i saperi si sarebbero diffusi in ragione aritmetica ma la stupidità dei semicolti, degli acculturati, degli “infarinati” sarebbe cresciuta in ragione geometrica. Sarebbe diventata devastante. Era in lui, questa, una opinione rocciosa dalla quale mai defletté, e che mise al centro della sua rappresentazione artistica: dagli influssi nefasti della lettura in Emma Bovary e presso quell’idiota scientista di Homais, fino al delirio enciclopedico dei due sublimi idioti Bouvard et Pécuchet (da ora in poi B&P, la sigla è più da idioti). Un suo chiodo fisso. Un aspetto imprescindibile della sua poetica, della sua visione. L’idiozia intellettuale è il frutto avvelenato dell’Illuminismo (Brombert), l’esito non previsto dell’Enciclopedia di Diderot, del sapere dispensato a tutti. Forse Flaubert esagerava, o forse non sbagliava se avesse assistito come noi all’esplosione dei deliri dei semicolti in tempi di pandemia o al delirio genuino e universale in ogni campo del sapere…
Alcuni esempi oltre quelli noti a molti lettori come i disturbi comportamentali germinati nella testa di Emma Bovary in seguito alle sue eccessive letture, possono essere tratti anche da l’Educazione sentimentale (da ora in poi ES). A comprova che nel Nostro tout se tient.
In ES c’è questa figurina di Rosanette con la quale il mediocre Frédéric intreccia una relazione non di secondo momento se dà luogo a un parto e alla nascita di un figlio, anche se per sbaglio. Flaubert non è cattivo con questa “lorette” (una donna di facili costumi che passa da un letto all’altro) verso la quale ha accenti delicati in più punti della narrazione, come in seguito li avrà verso la “servante” Félicité di “Un cuore semplice”.
L’artista Flaubert non se la prende mai con gli umili e i semplici di cuore. Sono bêtè anche loro, certo, stupidi, idioti intrisi di bêtise, ma di una idiozia quieta, creaturale, naturale come quella delle bestie ruminanti appunto, i bovi (da cui l’artista prende le radici dei cognomi Bovary e Bouvard), non toccati dalla bêtise irredimibile, ovvero l’idiozia superiore, quella “sublime”, sinistra, degl intellettuali come Homais. Certo la sorprende a sbadigliare davanti alle reliquie della Grande Storia durante la gita a Fontainebleau, in cui lo stesso artista si lascia andare, dopotutto, allo scoraggiamento e/o alla malinconia davanti ai fasti transeunti delle Dinastie e delle Corti, alla mestizia sottocutanea del passaggio del tempo e alla diffusa “éternelle misère de tout”.
Flaubert scrive: «Lei [Rosanette] un tempo era stata sensibile e persino, in un momento di dolore, aveva scritto a Béranger per avere un consiglio…”.». Avete letto bene: Rosanette scrive a Béranger, un poeta che Flaubert considerava mediocre per ricevere consigli in affari di cuore! C’è una sottile parodia in questa scena: è il pop che dialoga col trash. Cercate di immaginare uno scrittore o un personaggio pop della ribalta di oggi cui la gente minuta scriva per conforto e ispirazione. Fate voi i nomi (di cui vi prendete la responsabilità della comparazione dileggiante).
Béranger è un chiodo fisso di Flaubert. la sua bestia nera. Da notare che nella “Bovary” Homais, lo scientista ridicolo, dice: «Il mio Dio è il Dio di Voltaire, il Dio di Béranger.» Béranger professa un deismo elegante e tollerante, il cui “Dio dei buoni” consiglia agli uomini di “fare l’amore”, “vivere nella gioia” e “schernire i grandi”. Ma ecco che nel ritratto di Charles Bovary c’è ancora questa annotazione. «Charles si entusiasmò per Béranger, seppe fare il punch e infine si innamorò.» La successione delle “esperienze” di Charles è da “grottesco triste”, un trattamento stilistico — sottilmente dileggiante — frequente in Flaubert, in cui egli mischia l’Alto e il Basso per farli cozzare assieme e vedere l’effetto che fa. L’autore qui dileggia il suo personaggio perché mette in successione esperienze volgari (imparare a fare il punch) e sublimi o segnanti (la frequentazione della poesia di Béranger e la prima copula).
Flaubert ritornerà spesso, anche in ES e altrove, su questo poeta francese, allora celebre, da lui ritenuto mediocre e detestabile. In una lettera a L. de Cormenin del 7 giu 1844, scriverà «Sembra che siamo fatti per sopportare solo una certa quantità di bellezza; un po’ di più ci stanca. È per questo che le nature mediocri preferiscono la vista di un fiume a quella dell’oceano e che molti proclamano Béranger il primo poeta francese.» Ma è alla Colet [27 sett 1846] che preciserà il suo pensiero: «Tu vorresti che io conoscessi Béranger; lo vorrei anch’io. È un grande uomo che mi commuove. Ma c’è, e parlo delle sue opere, un’immensa sfortuna, ed è la classe dei suoi ammiratori. Ci sono geni enormi che hanno un solo difetto, un solo vizio, che è quello di essere sentiti soprattutto da menti volgari, da cuori di facile poesia. Per trent’anni, Béranger è stato oggetto di romanzi per studenti e di sogni sensuali di venditori ambulanti. So bene che non è per loro che scrive, ma è soprattutto questa gente che lo sente. Inoltre, la popolarità, che sembra ampliare il genio, lo volgarizza, perché la vera bellezza non è per le masse, soprattutto in Francia.» Ma l’affondo arriva in un’altra lettera di fine dicembre 1847 sempre alla Colet: «Béranger è stato elogiato in quasi tutti i discorsi. Che abuso del buon Béranger! Gli porto rancore per il culto che le menti borghesi hanno per lui. Ci sono persone di grande talento che hanno la disgrazia di essere ammirate da gente di poco conto: il bollito è sgradevole soprattutto perché è la base delle piccole famiglie. Béranger è il bollito della poesia moderna: chiunque può mangiarlo e trovarlo buono.» Occorre richiamare alla mente che è durante la consumazione di un “bouilli” che Emma ha una delle sue crisi di disgusto verso la mediocrità della sua vita [cfr quanto scrisse Lorenza Maranini in
Il ’48 nella struttura dell’Educazione sentimentale, Nistri-Lischi 1963, e anche Auerbach in Mimesis].
La sentenza è definitiva. Il Bello non è fatto per le masse. Flaubert segna il distacco definitivo delle due entità, élite e popolo, aristocrazia dello spirito e esigenze estetiche delle masse. Da allora sarà così nell’epoca della riproducibilità tecnica: più aumenta la pressione della cultura di massa raggiunta e soggiogata dai mass-media, più le avanguardie artistiche si allontaneranno dalla pazza folla. È la nascita del “demotico” di cui scriverà Hobsbawm nel “Secolo breve” e la reazione snob delle avanguardie. Si tratta dello scenario in cui tutti oggi siamo immessi e immersi. Cultura alta, rarefatta e cultura pop spesso si trovano nello stesso dispiego di pagina (per esempio deliberatamente, ossia per “intenzione redazionale” in Infinite jest di Wallace) e saperle miscelare e “decrittare” richiede una consapevole estetica personale, un governo dei registri espressivi nel saper fare del surf tra le due divaricanti sollecitazioni estetiche.
Non era così per Flaubert, che voleva tenere distinti e distanti i due domini della popolare “distrazione passiva” dalla aristocratica “ricreazione attiva” (riprendo le nozioni di passive diversion e active recreation di F.R.Leavis per il quale tali categorie segnano l’irruzione nella modernità della cultura di massa nei giardini estetici degli eletti). Non è a caso che Flaubert inventerà per il suo Arnoux — un personaggio policromo e buffo dai mille affari sconclusionati, il titolo della sua rivista «l’Art industriel» che riecheggia quel saggio di Sainte-Beuve (1839) che per primo aveva segnalato il fenomeno della «littérature industrielle» — ossia un ossimoro irridente nella visione artistica di Flaubert (se è Arte non può essere Industriale), e una forma sottile e sintetica di dileggio così frequente in lui. Ricordiamo che Flaubert si oppose alla riduzione teatrale della “Bovary ” e rifiutò l’edizione illustrata di “Salammbô” (cosa che invece Manzoni accolse benevolmente per il suo romanzo illustrato dal Gonin e per la cui edizione si svenò). Per Flaubert non potevano esserci contaminazioni tra l’Alto e il Basso, tra il popolo e l'”aristocrazia legittima” dell’arte. Sotto questo profilo fu un parnassiano — l’Art pour l’Art certamente — anche se proprio in ES si prese l’incarico artisticamente consapevole e meritorio di esaminare e processare, da “anarchico di destra” (Winock dixit), le pulsioni intellettuali di massa, le idee politiche della propria epoca “fatalmente” democratica. Flaubert rimase un principe tra la folla per riprendere la significativa immagine di Thomas Mann, principe distinto e distante.
Ma quanto a Béranger c’è da riprendere tutta la questione che il suo nome solleva con spirito distaccato e nel suo insieme anche con le precisazioni di Michel Winock, studioso della storia delle idee politiche progressiste e poi biografo di Flaubert. In Les voix de la liberté. Les intellectuels engagés au XIXme siècle, Seuil 2001, ebook sterminato di 1088 pp. — Winock stila riflessioni da prendere in considerazione e che io avevo trascurato allineandomi subito dalla parte “alta” di Flaubert e anche di Baudelaire, anch’egli più che critico nei confronti di Béranger.
Innanzitutto c’è da considerare che Béranger, a differenza di uno scrittore di prosa come Flaubert, era propriamente un poeta o meglio dire uno chansonnier, non certo come Brassens, Brel o Montand dei nostri tempi, ma con tratti simili se riportati ai mezzi di produzione della propria epoca, allorché si scrivevano chansons destinate non già alla riproduzione tecnica, che non c’era, ma al passaggio di bocca in bocca, alla declamazione nelle taverne, se non al vero e proprio canto libero solitario o corale. «Per giudicare il crescente successo di Béranger, occorre ricordare che la maggioranza dei coscritti sotto la Restaurazione non sapeva né leggere né scrivere. Era quindi attraverso il canto, piuttosto che con i giornali, che si diffondevano le opinioni», annota Winock.
Béranger, descritto come “conduttore di anime”, “dio dei proletari”, “padre del popolo”, “chansonnier immortale”, “atleta del buon senso, gigante del pensiero”, “il poeta più completo del suo tempo”, “il più grande poeta del secolo”, “portavoce dello spirito francese”, ecc. era cosi popolare che al suo funerale, nel 1857, parteciparono centomila persone (mentre quello di Musset, poche settimane prima, era stato praticamente clandestino).
Ricordando la sua infanzia sotto la Restaurazione nei suoi Souvenirs littéraires, Maxime Du Camp ha lasciato una pagina eloquente sulla gloria di Béranger: «A quell’epoca, un uomo in Francia agitava le folle ed era diventato una sorta di divinità popolare che era criminale non adorare. […] Forse nessun poeta arrivò in un momento più appropriato, nessuno seppe cogliere il fatto, l’incidente che agitava momentaneamente gli spiriti, generalizzarlo, confezionarlo in una forma facile da ricordare e inciderlo nella memoria mettendolo su una melodia familiare. Più avanti, ricordando due canzoni, “Le vieux caporal” e “Le 14 Juillet”, Maxime Du Camp racconta che i suoi due zii ripresero il ritornello in coro: “A un’ultima strofa, mi spinsero violentemente: “In ginocchio! ragazzo, questa è una canzone sacra. Eravamo commossi”.»
La reputazione di Béranger non gli sopravvisse. L’amico di Du Camp, Gustave Flaubert appunto, critico del progresso, della borghesia e della stupidità, tornò più volte sull’uomo che vedeva come l’incarnazione di questi elementi, sia nei suoi romanzi che nella sua corrispondenza, come abbiamo visto più su. Solo per aggiungere quest’altro passo. Scrive a Louise Colet nell’aprile del 1853: «Da trent’anni, tutti i più bassi istinti poetici di Francia si sono innamorati di Béranger […] Ricordo che molto tempo fa, nel 1840, ad Ajaccio, osai sostenere da solo, davanti a una quindicina di persone (era in casa del prefetto) che Béranger era un poeta comune, di terza categoria. Sono sicuro di essere apparso a tutta la compagnia come uno scolaretto molto maleducato».
Ciò non impedì a Béranger di essere considerato in vita, soprattutto negli ultimi anni della Restaurazione, come un autore importante al pari dei più grandi del suo tempo, prosegue Winock. Aggiungendo: «Non si può trascurare l’influenza di Béranger sullo sviluppo di una cultura politica basata sull’opposizione all’Ancien Régime, alla nobiltà e all’alleanza tra il Trono e l’Altare, e sull’esaltazione dell’impulso patriottico. In un’epoca in cui la libertà di stampa era ancora una lotta e la maggioranza della popolazione era ancora analfabeta, la canzone politica era un mezzo di comunicazione di massa la cui influenza è difficile da misurare. Tuttavia, le testimonianze, gli interventi e i vari documenti di cui disponiamo suggeriscono che avesse un pubblico a vari livelli della società. È interessante notare che Eugène Pottier, il futuro autore dei versi de L’Internazionale, dedicò la sua prima raccolta, La Jeune Muse (Pottier aveva quindici anni), a Béranger nel luglio 1831.»
In realtà questo “poète grivois”, di cui Baudelaire detestava le “polissonneries”, ha lasciato il segno nel suo tempo e ha dato alla canzone politica francese uno status che non aveva mai avuto prima, annota Winock.
Concludo io con quest’ultima osservazione di un intellettuale comunista italiano: «In Italia è mancato il libro popolare, romanzo o d’altro genere. Nella poesia dei tipi come Béranger e tutti i chansonniers popolari francesi.» Era Antonio Gramsci a scriverla nei “Quaderni” (Q 3. XX Miscellanea.)
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