Letteratura

Cos’è una storia per Baricco

2 Novembre 2022

Gérard Genette, solo per fare riferimento a uno dei principali specialisti della narratologia occidentale, nel definire, in “Figure III”, cos’è in estrema sintesi una «storia» nell’arte narrativa asseriva:

«Qualsiasi racconto è […] l’espansione di un verbo. “Io cammino”, “Pietro è venuto”, a mio parere sono forme minimali di “racconto”, e inversamente l'”Odissea” o la “Recherche” si limitano in fondo ad amplificare (in senso retorico) enunciati quali “Ulisse torna a Itaca” oppure Marcel diventa scrittore».

Una storia è un personaggio più un verbo d’azione. Stop.

Nell’affrontare la delucidazione del termine/concetto di «storia» nella narrazione Baricco preferisce invece, in questo pamphlet La Via della narrazione, la sfumatura alta.
«Una storia è il campo di energia prodotto nell’animo di uno di noi dall’imprevista vibrazione di una tessera di mondo». Ma in esordio la spuma rococò della sua prosa saggistica s’avvoltola ancor più, e perciò l’efflorescenza linguistica indugia sul «rumore bianco del mondo», sul «frullare d’ali», sulla «figura disegnata nel vuoto», puntando sui ricci a manico di violino dell’espressività alata piuttosto che sulla nuda referenzialità: tentare semplicemente di definire la cosa in esame come faceva lo Stagirita per esempio.

I personaggi? Non parliamone. Per Baricco «I personaggi, i caratteri, gli eroi, sono sempre la traduzione antropomorfa di un’energia, di una corrente, di una sezione del campo magnetico. Il buco nero, Achille. Il gorgo, Odisseo». Uhm…Noi s’era letto che un personaggio è latore di una «funzione» narrativa ed ecco il protagonista, l’antagonista, l’aiutante ecc. avrebbe detto un formalista russo. E poi ecco: non confondiamo la «trama» con la «storia» ingiunge perentorio Baricco mandando in confusione l’ammiraglio in pensione che c’è in noi e che è andato alla Scuola Holden per imparare speranzosi a scrivere un romanzo. La «storia», aggiunge orfico Baricco, è una «linea», la «trama» uno «spazio». Ma anche, lapidario: «L’espediente tecnico con cui si riduce una storia al formato del racconto si chiama trama». Qui il buon Tomaševskij avrebbe debolmente protestato che già queste distinzioni sono ricomprese nei termini da lui enucleati e da allora diventati classici in narratologia ovvero i termini-concetti di “fabula” e “intreccio”, la prima racchiudente il contenuto del racconto, la «storia» appunto, il secondo la sua disposizione artistica nel manufatto narrativo, volgarmente la «trama». E che, per quanto le si possa distinguere, se vengono esaminate dal punto di vista cronologico e logico invece coincidono, altroché. Ma Baricco è un originale chic ed elude questa solida tradizione narratologica, e poi, in un testo brillante e succinto come il suo (degli appunti gettati giù con sprezzatura signorile) meglio la forma estremamente sintetica e rarefatta della frase-illuminazione. Non deve mica preparare una lezione per la scuola Holden! L’ha già venduta.

In una esposizione del fatto narrativo così condensata, che si aggiunge tuttavia a una tradizione di studi ormai tanto consolidata quanito proliferante, ci si aspetterebbe qualche riferimento bibliografico più stringente a corredo dei preziosi e ispirati apoftegmi. La mia mente pesante e meno ornata andrebbe alla ricerca degli studi dei formalisti russi col sussidio del libro di Todorov o degli strutturalisti francesi e non solo sunteggiati mirabilmente da Bourneuf e Ouellet nel loro ampio studio L’universo del romanzo, oppure all’americano Seymour Chatman o agli anglosassoni in genere (James, Lubbock, Brooks). No, saggiamente devo dire, Baricco, più sobrio di me si sofferma su un libro peraltro di largo impiego nelle scuole di creative writing: Il viaggio dell’eroe, di Christopher Vogler. È un volume che nasce nel mondo pragmatico dell’howtoism americano, dei manuali che si propongono di spiegarti come funziona tutto – lo vediamo anche nei reel che infestano la Rete -: come dare la paghetta ai figli, come curare le azalee e anche – spiegato da suadenti signore -, come fare sesso con il lato B. Niente resiste all‘howtoism, alla manualistica, ai tutorial, alle guide di chi estrae la “grammatica” dalla “pratica” per poi a sua volta riversarla nella pratica degli aspiranti scrittori, degli orafi in pensione con la fregola della scrittura creativa. Inoltre, occorre dire che questo libro preso in esame da Baricco, unitamente all’altrettanto famoso che è Story. Contenuti, struttura, stile, principi per la sceneggiatura e per l’arte di scrivere storie di Robert Mckee, sono saggi ad aspirazione pratica, manualistica, redatti sulla “ferrea legge”, che è una convinzione inscalfibile, che la narrazione è soprattutto raccontare una «storia». Nel caso di Vogler c’è un ipotesi radicale, ossia «che tutte le storie del mondo derivino da un unico modello originario e archetipico. In pratica esiste un’unica storia, declinata all’infinito: un eroe viene chiamato a compiere un’impresa, parte per compierla, riesce a superare tutte le prove che gli vengono sottoposte e poi torna al mondo portando con sé una nuova sapienza o un nuovo potere». Ora, oltre l’azzardo di Vogler di assegnare a questa Ur-storia, a questa storia primigenia da cui scaturirebbero tutte le storie la funzione di attingere all’inconscio collettivo di Jung (elemento dottrinario che fece fare un balzo indietro a Freud e portò alla rottura tra i due psicoanalisti) fa prendere, giustamente, le distanze da Baricco da questa ardita ipotesi. Come dire: vi sono più cose in cielo e in terra che nella tua «storia» caro Vogler.

Ora, Baricco non lo dice, ma c’è il saggio del nostro Franco Ferrucci L’assedio e il ritorno dove le Ur-storie sarebbero almeno due: l’assedio o il romanzo da fermi (come l‘Iliade o Le relazioni pericolose) e il ritorno come il romanzo di viaggio o in movimento (l’Odissea, Sulla strada). Ma occorre inoltre ricordare – e non si finisce mai di elencare nel magico mondo della narratologia-, c’è in tema di archetipi o cliché, l’ipotesi dei “parchi tematici” con le stazioni narrative obbligate di cui parlava qualche anno fa Martin Scorsese a proposito delle produzioni medie cinematografiche americane, oppure i “cronotopi” di Michail Bachtin (Estetica e romanzo), ossia dei moduli narrativi spazio-temporali standard codificati dalla tradizione letteraria come ad esempio “la strada”, “l’incontro”, “il salotto” ecc. o infine The Seven Basic Plots: Why We Tell Stories di Christopher Booker, e qui sono già sette le Ur-narrazioni.

Ora, fa bene Baricco a diffidare dell’archetipo di Vogler: «il sistema con cui gli umani [prego notare che dai tempi di The Game Baricco non riesce più a dire uomini come Mario Tozzi che ormai ci chiama i sapiens] producono storie è assai più complesso e libero di quanto Il viaggio dell’eroe non riconosca».

Quindi sì le storie, ma occorre essere cauti. Ma ecco che oltre al mitologema priceps delle scuole di scrittura creativa, la/le storia-e, ecco che viene a cadere un altro bastione. Lo stile. L’ammissione è sincera quanto stupefacente:

«Lo stile è di pochi. Sgorga da un’intimità altissima e misteriosa con un particolare materiale. Non si può insegnare, lo si possiede. È un evento. Accade quando il linguaggio, qualsiasi linguaggio, cessa di essere uno strumento esterno e diventa prolungamento di un corpo. Mano, non martello. Respirazione.»

Ma se così è, ed è così, è fastidioso dover ricorrere a quel micidiale, sconfitto, affliggente, tersiteo «ma già lo avevo detto io». Nel mio libello Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! (urly.it/3n-70) annotavo proprio questo contro le scuole di scrittura creativa, sciupainchiostro che non sono altro. Che puoi insegnare, fondatore della Scuola di scrittura creativa Holden, a “montare” le storie, le quali hanno un compito “servile” nella scrittura creativa, ma non puoi insegnare lo stile che è la visione, il cuore del progetto letterario stesso, di più, è il “proprium”, lo specifico di un narratore e dunque della narrazione/scrittura stessa, ciò che fa di Svevo, Svevo, di Berto, Berto e di Mann, Mann, ossia una non-replicabile e insegnabile maniera personale e assoluta di vedere il mondo e narrarlo. «Mano non martello» come dice icasticamente il Nostro, e le mani sono uniche pur nella loro similarità (hanno tutte cinque dita ma nessuna è fungibile con un’altra), non quel martello che si costruisce in serie nelle fabbriche della letteratura industriale che sono i corsi di scrittura creativa. Allora cosa insegnano alla Holden (che lui ha venduto) se non lo stile che non si può insegnare? Ma proprio l’aspetto strumentale, il montaggio, il Lego dei mattoncini delle benedette «storie», ossia non la «voce» unica e sola, irripetibile, dell’artista «vocato», ma il mestierante, il gesto verbale ripetitivo, la tecnicalità nuda e cruda ai fini della esecuzione dei prodotti della “letteratura industriale” (comics, serie tv, romanzi di genere ecc.) nella cui incessante produzione e riproduzione tutti affoghiamo come in una immane colluvie.

In verità al di là  degli orfismi estenuati Baricco ci dice cos’è in essenza il “narrare”: è  «quasi una magia» e non «quel processo chimico che è»; è «completare il  testo della propria esistenza» nientemeno, è «la Via [con la maiuscola à la Gesù Cristo] attraverso cui raggiungere un certo [non si sa quale, resta nel vago, “un certo”] completamento di se stessi». Certamente lo stile non si può insegnare, ma si può insegnare «a rassicurarlo, difenderlo, farlo crescere», mentre il narrare ovviamente è una pratica che si può insegnare, certo «non è facile, ma solo una visione distorta di cosa sia un narratore può condurre a pensare che sia impossibile o addirittura truffaldino». La parola gli è scappata… Truffaldino no, ma quasi. Diciamo che siamo nel campo più o meno leale (ognuno fa storia a sé) del puro commercio, in cui più o meno onestamente si individua (spesso li si suscita) un “bisogno” o una “necessità” e li si copre con un bel corso a pagamento. Carissimo, ci vogliono migliaia di euri, è un dettaglio, perché in fondo lor signori noi siamo professionisti… Ed ecco la dolcezza finale. «Scrivere un racconto come partecipare a una cerimonia del tè».

Mi affretto concludere. Baricco nel suo stile saggistico tende all’evaporazione semantica suggestiva, all’incantagione verbale elusiva, al bellettrismo dissimulato sotto veste di orfismo estenuato un po’ flou. In questo libello il diavolo e il frate si scambiano la barba, il mellifluo e il sulfureo si mischiano e si alternano. Leggendolo penseresti a Metastasio se ti mettessi in un’ottica rigida desanctisiana in cui si disprezzino gli abitini di seta e le polpe degli abatini e si andasse in cerca dell’uomo più che del poeta o del letterato, ma chi come me ha superato anche questa fase di “impegno” ed è disposto a qualche sderenamento morale e sortilegio letterario non può che arretrare comunque di fronte a certe voragini di puro senso che gli si parano davanti lungo il sentiero di lettura dei libri di Baricco, almeno di quelli che io ho affrontato (dalla cui risma escludo con convinzione solo L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin le cui impressioni potete leggere qui urly.it/3qrhz,
mentre di City qui urly.it/3qrhv,
di The Game qui urly.it/3qrhw, di Quel che stavamo cercando qui urly.it/3qrha

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.