Ambiente

Cosa si nasconde dietro una spiaggia troppo bianca

11 Agosto 2015

Pubblichiamo un estratto di «Una spiaggia troppo bianca», romanzo di Stefania Divertito, giornalista napoletana specializzata in inchieste sull’ambiente. L’opera inaugura la serie “Le inchieste di Gemma Ranieri” (NNEditore, 256 pp, 15 euro). Come l’autrice, Gemma è una giornalista, caparbia, intuitiva e che non si prende troppo sul serio, che si ritrova al centro di un eco-thriller. 

* * *

Alla stazione, il caldo la colpì come se fosse solido. Gemma si precipitò, per quanto glielo permettessero i maledetti sandali, verso la testa del treno; ovviamente lo vide subito, svettava di una testa sopra gli altri. Appena la vide le andò incontro.
«Ciao, amore. Fatto buon viaggio?».
La baciò rapidamente sulle labbra. Gemma lo guardò, e all’improvviso ebbe paura.
«Diego, ma che è successo?».
Non era diverso dal solito. Ma era stranamente pallido, rigido, e se non avesse saputo che era lui, quel Diego lì, florido e tranquillo e sempre sicuro di sé, l’avrebbe detto quasi smarrito. Aveva l’aria di chi avrebbe pagato molto pur di trovarsi altrove.
«Vieni, ti porto subito in ospedale».
 Gemma non rispose. Ormai zoppicava, i sandali le facevano un male cane, ma non volle dirgli che aveva pensato di passare da casa, prima.
«Sono andato a casa tua, ti ho preso un cambio» disse Diego, come se le avesse letto nel pensiero. «È in macchina. Ci sono anche le tue ballerine».
Visto che ormai aveva i piedi come due zampogne, Gemma avrebbe preferito un paio di Birkenstock, ma era troppa grazia.
Uscirono dalla stazione quasi senza dirsi una parola. Lei era del tutto spiazzata dal silenzio di lui, da quell’assurda resistenza a parlarle, a dirle anche solo una sciocchezza. Non sapeva cosa pensare e non voleva farlo. Decise che gli avrebbe dato tregua fino alla macchina, ma poi l’avrebbe tempestato di domande.
«Stai qui, arrivo subito».
La lasciò all’angolo, tornò in auto dopo pochi minuti. Lei salì, lui le porse una borsa. I suoi leggins neri e la maglietta nera con i bottoni di madreperla. Anche le ballerine erano quelle nere. Gemma deglutì.
«Diego, mo’ mi dici cosa significa…».
Diego ingranò la marcia e fissò la strada davanti a sé.
«Vic ha avuto un incidente, Gemma. È volata giù dal viadotto sopra la spiaggia».
Non si voltò a guardarla.
«È morta oggi pomeriggio alle tre».
…***…

Quando squillò il telefono, si rese conto di non aver più sentito Diego dalla sera prima.
«Amore, come stai?».
La sua voce. Tranquilla, seria. Riposata, soprattutto.
«Di merda» rispose lei, ancora con le lacrime agli occhi. «Hai dormito?».
«Malissimo». Esitò, poi aggiunse: «Ma perché hai detto a tutti di non rispondermi al telefono?».
«E farti venire da Milano sapendo che non c’era più nulla da fare? Volevo che arrivassi, prima di dirti che la tua migliore amica non c’era più».
Lei tacque per un momento.
«Non so se mi fa piacere, ma grazie» disse infine. «Cosa vuoi fare, adesso?».
«Vado all’obitorio. Voglio parlare con il magistrato».
Diego sospirò.
«Gemma, io non ti voglio dire niente in questo momento, ma secondo me è meglio che non lo fai».
«Ma perché? Cosa avete tutti quanti?» scattò, alzando la voce. «Che cazzo è successo che non mi raccontate? Cosa cazzo può dire di sconvolgente il magistrato? Che Vic si faceva le canne? E allora?».
«Mo’ stai calma» ribatté lui, nervosamente. «Non c’è bisogno di urlare. Era solo un consiglio. Non sei lucida, non…».
«Certo che non sono lucida!» esplose lei, finalmente. «Sto da cani, io ieri non c’ero, Diego, lo capisci o no? IO NON C’ERO! E ci dovevo essere, cazzo, ci dovevo essere! Magari se fossi andata con lei…».
«Finivi sulla spiaggia pure tu!» la interruppe Diego, furioso. «Chist’ è ’nu capriccio, te ne rendi conto? Sei arrabbiata perché non c’eri e allora ti metti a fare la signora in giallo?».
«Oh, ma sei impazzito?» urlò Gemma, fuori di sé. «Ma quale signora in giallo, io sono una giornalista, ti ricordi? UNA GIORNALISTA, cazzo!».
«E come faccio a scordarmelo, quando tu me lo ripeti almeno dieci volte al giorno?» urlò lui, ancora più forte. Gemma sussultò suo malgrado. «E il giornale di qui, e il giornale di là… manc’ fosse ’o Corriere della Sera! Sai che ti dico? Che se ti dovevi trasferire per andare a lavorare per quella carta igienica formato tabloid, tanto vale che stev’ acca’a dare una mano all’amica tua!». Gemma troncò la conversazione. Respirò profondamente, il telefono stretto in mano. Aprì il frigorifero, si attaccò alla bottiglia dell’acqua minerale, bevve, richiuse lo sportello. Si sedette al tavolo della cucina. Era sconvolta, sbalordita da quell’ondata di rabbia e disprezzo. Non era certo la prima volta che lei e Diego litigavano; anzi, era successo spesso dopo che lei aveva deciso di trasferirsi a Milano. Ma quello non era un litigio, quello era un rimprovero, una rivendicazione; lei non era lì dove doveva stare. Lei se n’era andata. E chi se ne va ha sempre torto.

Prima di uscire dal portone sbirciò distrattamente nella cassetta della posta. E la vide.
Doveva essere sfuggita ai suoi, sottosopra dalla sera prima. Invece ora spiccava come fosse luminosa: una busta sottile, verdina, lo stesso colore del blocco di carta da lettere che Vic usava ogni tanto per scrivere liste, appunti e disegnare fumetti di animali parlanti.
Aprì lo sportellino, prese la busta. Sopra c’era scritto “Max” nei caratteri eleganti e un po’ leziosi di Vic. La aprì subito, con il batticuore. Conteneva due fogli scritti su entrambi i lati.
Cara stronza (non sei venuta all’inaugurazione, quindi stai muta e rassegnata),
ora che la mostra è finita e montata mi sento meglio, e tutto sommato sono perfino disposta a perdonarti. In fondo ti capisco: chi te lo fa fare di sciropparti ’sto viaggio per tornare in un posto dove conosci pure le pietre e non succede mai un cazzo? A Milano ti starai costruendo la tana, ti vedo all’Ikea a scegliere i piatti colorati, magari con quel tuo collega di cui ti lasci scappare il nome ogni tanto (com’è che si chiama, Federico? E mandami ’sti ffoto, ja’).
Però le cose si muovono anche qua. Poco, è vero, ma non è quell’orrenda palude che ti grippa le caviglie e ti tira giù come nei film horror (a proposito di horror, ho trovato una serie fantastica, appena vieni te la faccio vedere, è bella quasi quanto Buffy). Intanto, la mostra. Vabbuo’, non espongo a via Chiatamone, ma all’oratorio della parrocchia. È comunque lo studio del cantiere e della sua spiaggia bianca. Un cantiere gattopardesco dove tutto cambia perché tutto resti com’è. Anzi, due cantieri: uno navale e uno civile, quello per l’università. Avevo cominciato a fotografare già l’anno scorso, ti ricordi, ma in realtà ho quagliato adesso, in questi ultimi mesi, da prima di Natale a ieri.
Quelli dei cantieri non sono stati proprio cordiali. C’era un capoccia, Varriale, che sorvegliava il movimento terra delle ruspe e ogni tanto veniva a chiedere cosa ci facevo lì. E poi uno del cantiere navale, più gentile ma equi- voco, che però non mi ricordo come si chiama. Russo, o Riccio, o qualcosa del genere. L’unico decente è stato un sindacalista del Cocer, che ho incontrato una mattina presto, quando non c’era ancora nessuno. Ci siamo messi a chiacchierare, mi ha raccontato un sacco di cose, ma non ha voluto dirmi il suo nome: diceva che non era prudente né per me né per lui. Mi vedeva arrivare tutti i giorni, era curioso di conoscermi. Secondo me ci stava provando.
Ho saputo che il cantiere navale, come molti altri in Italia, era menzionato in un’inchiesta della procura di Padova per morti legate all’amianto. Praticamente le navi ne erano imbottite, e chi ci lavorava – marinai so- prattutto – il più delle volte non lo sapeva. Respiravano, maneggiavano, vivevano a contatto con uno dei minerali più tossici possibile e poi alla fine in tanti sono stati consumati dalle malattie. Gli ho chiesto perché l’inchie- sta fosse stata aperta a Padova e non a Napoli, e lui ha fatto un sorrisetto storto. Non mi ha risposto, siamo andati a bere un caffè e poi è andato via.
Non l’ho più rivisto, ma mi ha fatto riflettere: ho pensato che tutta l’ultima sequenza delle foto della spiaggia dovesse essere meno realistica, dovesse abbracciare i due cantieri e dare un’idea di come, nella loro rovina, stessero rovinando il quartiere. Il male che corrompe, distrugge l’organismo sociale esattamente come il cancro distrugge le cellule. O meglio, il mesotelioma di cui sono morti quei poveretti di marinai. Allora ho pensato di cambiare prospettiva, e sono andata a fotografare la spiaggia dall’alto. Perché la verità la vedi solo da lontano. O solo chiudendo gli occhi. (Nel mio caso uno solo, il destro, che è più cecato di quell’altro.)
Ecco, mo’ che tieni pure le indicazioni muovi il culo e vieni a vedere la mostra. Non ti perdonerò una seconda volta, neanche se diventi caposervizio del Corriere, Bercovicz!
Ti aspetto. Ti aspettiamo tutti. Pure Diego. Ja’, vieni.
Tuo Noodles
Riuscì a non piangere, ma le ultime righe, la firma, quel Bercovicz sottolineato due volte, ricordo del primo film d’autore visto insieme al Filangieri, quei personaggi che le avevano entusiasmate e commosse al punto da usarne i nomi per ogni avvenimento importante, privato, complice, delle loro vite, furono letali. Gemma strinse i denti così forte da farsi quasi male, rimise i fogli nella busta con mani tremanti, uscì dal portone cercando di trattenere i singhiozzi, resistendo alla tentazione di tornare dritta a casa di Vic, e farsi consolare e accarezzare, e baciare da tutti quanti.
«Gemma, sono Marina. Come stai?».
Si era raggelata. Era l’Anselmi, fredda e terribile come il dottor House.
«Benino, grazie… un po’ sottosopra».
«Dev’essere molto pesante. Ci sono passata anch’io, con un parente molto caro».
«Non c’è modo di abituarsi alla morte» aveva mormorato, quasi senza rendersene conto.
«È vero. Purtroppo devo chiederti quando torni. Ti aspettavo già ieri».
Ecco. Sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe dovuto giustificare l’assenza, la mancanza di notizie, il desiderio di stare più lontana possibile dalla redazione.
«Hai ragione» ammise. «Sono… sono stata travolta da… da tutto. Il funerale è domani, io torno giovedì».
«Manchi da quasi una settimana, lo sai? Come pensi di recuperare? Ho bisogno di qualcosa da te, capisci, no?».
«Mi dispiace» aveva risposto, cercando di non balbettare «è un momento difficilissimo. Posso solo chiederti di avere ancora un giorno di pazienza…».
«Sono due giorni, Gemma. Hai detto che torni giovedì. Io ti voglio al tuo posto, o come minimo voglio la tua firma. Mi spiego?».
Secca e sbrigativa, senza mai alzare la voce, riusciva a farla sentire sempre una deficiente. Gemma ogni volta faticava a mantenere il controllo, con lei; era capace di confonderla, di farla sentire in torto né più né meno come se fosse sua madre. E in effetti, in un lampo di consapevolezza Gemma si era resa conto che quella natura affilata e spigolosa, quello sguardo penetrante, quell’aggressività perennemente in agguato era la stessa in entrambe. Ommadonna, si era detta, devo cercarmi un altro capo.
«In effetti» aveva risposto precipitosamente «sto lavorando a qualcosa… la mia amica stava fotografando i lavori di un progetto urbano, su una spiaggia su cui un altro cantiere, da anni, smantella delle navi della Marina militare. Ci sono documentazioni di marinai morti per effetto dell’amianto… È una storia poco conosciuta, e io ho pensato…».
«Un’inchiesta? Stai seguendo un’inchiesta, addirittura?».
Incredulità. E un pizzico di curiosità, vagamente derisoria. «Sì. Se vuoi ti mando gli appunti».
«Scrivi. Non gli appunti, un pezzo. Fammi capire di che si
tratta».
«Certo. Certo, scrivo e te lo mando».
«Bene. Aspetto. E per favore, non sparire».
«Grazie, Marina» aveva risposto, sperando che la lasciasse
andare.
«E condoglianze».
Aveva messo giù. Gemma aveva respirato a fondo, per calmarsi. All’improvviso, tutto il suo materiale le era sembrato un mucchio di sciocchezze, notizie vaghe e prive di logica affastellate insieme. Mancavano perfino i nomi dei cantieri. Mancava tutto. Mioddio. (…)
Aveva iniziato a riordinare i materiali.
Le navi della Marina militare italiana erano state regalate dagli Stati Uniti. Ed erano piene di amianto. I militari avevano navigato senza protezioni, senza neanche essere a conoscenza dei pericoli, per decenni, finché non erano insorte le malattie. Almeno dieci marinai erano morti di mesotelioma.
Mesotelioma: malattia letale ai polmoni causata solo e soltanto dall’amianto.
I nomi dei cantieri, trovati. Il filo logico, recuperato.
Poi era andata in canonica, per sistemare la mostra. Quando era tornata, aveva guardato il computer per venti minuti, senza riuscire a trovare l’attacco giusto.
Respira, si era detta. Respira.
Il mesotelioma. E il respiro. Aveva capito. Poteva iniziare.
Cosa c’è di peggio per un marinaio che aver paura di morire soffocato, come se venisse ingoiato dall’abisso del mare? Nulla. Ed è di questo che hanno paura, tutti i giorni, centinaia di marinai della Marina militare italiana, da quando tra di loro si è diffusa la notizia della strage di amianto. La procura di Padova, guidata dal magistrato Sergio Dini, sta conducendo un processo che vede indagati i vertici della Marina militare: un processo di cui si sa molto poco, ma che Milano Free Press è in grado di raccontare.
La denuncia parte dalla morte per mesotelioma pleurico di un ex sottufficiale siciliano, avvenuta tre anni fa. Mesotelioma pleurico: è la firma dell’amianto killer. La fibra minerale avviluppa i bronchi e i polmoni con la sua particolare struttura a spirale e a poco a poco, con una latenza che in alcuni casi può durare anche trenta o quaranta anni, lascia senza fiato, senza ossigeno, avvinghiati al respiratore, con la sensazione di essere sprofondati nel peggiore degli incubi. In fondo al mare.
Dopo, tutto era diventato più facile. Non aveva più nemmeno bisogno degli appunti.

Vic si era laureata in urbanistica, e aveva scelto quel grande progetto pubblico per la sua tesi. Ai tempi era stata addirittura protagonista di un cortometraggio sull’imminente resurrezione della periferia: aveva condotto il regista, un tipo simpatico ma dall’aria sprovveduta, nella fabbrica abbandonata che presto sarebbe stata abbattuta; gli aveva mostrato il mare invaso dagli scarichi neri dell’oleodotto e raccontato, documenti e ritagli di giornale alla mano, che con la riqualificazione dell’area anche l’acqua sarebbe tornata come una volta.

(…) Poi il cortometraggio era terminato, e con esso l’euforia. Sarebbe dovuta arrivare la routine, produttiva anche se lenta; e invece era cominciato solo il movimento terra. (…)

Poco dopo, anche la speranza aveva cominciato ad assottigliarsi; in fondo erano tutti abituati alle promesse non mantenute. Lo stesso quartiere lo era, un’ipotesi mai realizzata, una teoria non dimostrata: lo splendido affresco di ville vanvitelliane che incorniciavano il mare nell’epoca d’oro era stato fagocitato da una sequela di raffinerie, depositi di carburanti e vecchie fabbriche a graffiarne la cartolina e i ricordi. Poco alla volta si era compiuto quel processo misterioso e ineffabile che rendeva gli scempi invisibili proprio nel momento in cui erano più grossolanamente espliciti. Nessuno si accorgeva più delle ruspe e dei camion, della terra chiara che riempiva le buche e del fracasso del cantiere; nessuno andava più a vedere i lavori. Nel dilagare della cecità, però stavolta Vic si era intestardita.

(…) Una sera, di ritorno dal concerto di Caparezza, Vic aveva chiesto a Gemma, la sua amica d’infanzia, giornalista a caccia di notizie finita a Milano a caccia di un lavoro, se avesse voglia di fare un’inchiesta su quel terreno e sull’opera mai costruita.
«Ma perché no?» diceva Vic, davanti all’imperturbabilità di Gemma. «E mo’ pure tu con questa storia del c’avimm’a ’ffà? Che sei diventata cieca comm’all’ati?».
Gemma non sorrideva, ma aveva negli occhi lo sguardo dolce di chi è lontana, in vacanza, senza altri obblighi che il piacere di un breve ritorno.
«Non c’è nessuna opera, Vic. Mica te lo devo dire io, ja’». Aveva bevuto un sorso e aveva proseguito disincantata e distratta: «Ci sono solo soldi pubblici destinati a qualche impresa, è una storia troppo uguale a tante altre. Nessuno vuole sentirne parlare. Non mi daranno mai spazio per scriverne, neanche ci provo».
Di solito, a questo punto della discussione Vic si scaldava. Tirava bellicosamente indietro i capelli castani, lisci e lucidi, agitava la mano carica di braccialettini di cuoio, stoffa e perline e attaccava l’amica con una lunga e appassionata arringa sulla necessità del fare. Gemma ascoltava concentrata, ogni tanto la guardava – Vic aveva gli occhi verdi screziati di giallo, grandi e sempre carichi di matita – poi sporgeva le belle labbra in un finto broncio e le rispondeva caricando l’accento napoletano e prendendola bonariamente in giro. Ma stavolta Vic era rimasta zitta, bevendo, gli occhi sprofondati nel buio.
«Vabbuo’, io però lo faccio» aveva detto infine.
Gemma l’aveva guardata, incuriosita. La luce del lampione pioveva sbieca su di loro, circondandole di un alone giallastro.
«E cosa fai?».
«E cosa faccio? Fotografo. Mi piazzo e scatto tutto ’sto circo. Ho raccolto già un sacco di documenti. Vado a vedere il progetto, e dico quanti soldi sono stati spesi e da chi. Ci faccio una mostra. E se tu sei ancora tu mi scrivi i testi, vabbuo’? Alla faccia dei direttori di giornale che non vogliono pubblicare».
Il tono leggero ma pieno di sfida. Gemma era diventata seria.
«Non sono i direttori, sai. Spesso sono i redattori, troppo pigri per informarsi e far circolare le notizie».
«E chi se ne fotte. Li scrivi i testi o no?».
«Ummaronn’, Vic» aveva sospirato Gemma. «Io sto a mille chilometri».
Vic aveva sempre un milione di entusiasmi che si schiantavano sugli scogli del buon senso di Gemma, producendo spruzzi di parole aggressive ma mai vere offese.
(…) «Ma almeno all’inaugurazione ci vieni?».

(…) «Lo sapevo che andava a finire così. Lo sapevo» sibilò Gemma fra i denti, cercando di camminare in punta di piedi per non infilare nel pavet i maledettissimi tacchi undici. «Sciopero dei mezzi, un caldo apocalittico e a chi tocca andare al Premio Moda di Stelle, nella corte di un buco di negozio dietro Montenapoleone? Ma a me, naturalmente. La cronista d’assalto».
“Cronista d’asfalto, piuttosto” le avrebbe detto Filippo, con un sorrisetto sadico. Le venne da ridere suo malgrado: Filippo era quello che aveva ribattezzato il premio “Moda di Stalle” e le aveva suggerito il cow-look, un bel vestito chiaro pezzato di sudore. Lei lo aveva mandato a farsi friggere, ma purtroppo l’aitante collega del marketing, che la conosceva bene, non aveva fatto altro che anticipare la triste realtà: sull’invito c’era il dress code, ovvero le donne in chiaro, e Gemma, a Milano, aveva solo un vestito color crema, che le lasciava scoperta la schiena e con bretelle sottilissime che l’avevano costretta a uno scomodo reggiseno senza spalline.
Lanciò un’occhiata a se stessa riflessa in una vetrina e avvampò di rabbia: sembrava Maga Magò, i capelli rossi che si arricciavano gagliardi nemmeno fossero vivi e goccioline di sudore ovunque. I piedi nei sandali rosso corallo si stavano gonfiando, segnati alla caviglia da un complicato sistema di cinturini, e sarebbe stata questione di minuti prima che il sudore arrivasse anche lì, alla pianta troppo stretta e scivolosa. Era diventato tutto improvvisamente precario: l’andatura, i capelli tenuti su con un fermaglio troppo molle, perfino il begiolino del vestito su cui stavano per affiorare le prime macchie.

(…) La lievissima frescura dell’interno parve amplificare il disagio, invece di ridurlo. Alcune invitate alquanto stagionate, munite di cappelli e guanti di cotone, le lanciarono sguardi sdegnosi. Gemma cercò il bagno, sforzandosi di tenere l’andatura, di non far scivolare la borsa sul braccio, né il piede nelle scarpe. Si chiuse la porta alle spalle e tirò un sospiro di sollievo: almeno era da sola a contemplare il disastro.
Altro che cow-look: qui il pezzato diventava dominante, l’onda nera tracimava come una chiazza di petrolio sull’oceano. Sotto il seno, sulla pancia, che per Gemma era sempre troppo sporgente, le macchie si allargavano con insensibile sfrontatezza. Si esercitò a trattenere il respiro, a comprimere i muscoli per rendere piatto l’addome in modo da staccare l’abito dalla pelle.
Attraversò un cortiletto rigoglioso di rampicanti e raggiunse un’angusta sala piena di poltroncine di velluto rosso. Le luci erano basse e gialline. Raggiunse l’ultima fila quasi correndo, conquistò una postazione, si sedette e cominciò a strofinare le spalle sullo schienale per asciugarsi. Era talmente concentrata nell’operazione che si accorse di Nathalie quando ormai era troppo tardi.
Da Candy Candy in poi aveva imparato che l’eroina si trovava quasi sempre, a un certo punto, a dover fronteggiare tre bulle, inesorabili e ineluttabili come le Parche: occhi smisurati ma più obliqui, fremiti di sopracciglia appuntite e ghigni diabolici. Nathalie e le sue amiche – sempre due, anche se non sempre le stesse – erano esattamente quello: la versione in 3D delle cattive dei cartoni. In genere però il canone prevedeva che l’eroina fosse tecnicamente più bella delle bulle, soprattutto perché animata dalla bontà; invece qui, nel mondo reale, l’eroina aveva qualche chilo di troppo e un problema di sudorazione eccessiva, mentre le altre erano magre, ricche e camminavano sui tacchi penetrando l’ambiente con la spietatezza di un coltello nel burro.
(…) «Senti, devo dirti una cosa. Spero che non diventi un problema per noi». Gemma stava per chiedere “noi chi?”, quando dallo sguardo compunto dell’altra si rese conto, con orrore, che era in arrivo una stilettata. «Vedi, mi sono accorta che tu e Filippo… insomma… non credere, capisco, lui è così spontaneo e gentile… e senz’altro ti ha aiutato tanto quando sei arrivata. Capisco benissimo, lui poi non si tira indietro se si tratta di piacere alle donne, no? Proprio a tutte le donne!» riprese fiato e proseguì. «Ma, ecco, insomma, io e Filippo ci siamo… fidanzati» la mano sinistra svolazzò sotto il naso di Gemma, rivelando un impegnativo solitario circondato di brillanti. «Non vorrei che questo rovinasse il nostro rapporto, capisci?».
“Niente paura” avrebbe voluto rispondere Gemma, “peggio di così…”. E invece il suo sorriso si allargò. Tutto qui? Nathalie e Filippo erano i promessi sposi dell’ufficio da almeno un paio d’anni. Si permise addirittura un gesto di sollievo. «Oh, ma sei un tesoro a preoccuparti! Ma non devi, io e Filippo siamo solo amici, e nemmeno tanto buoni». Nathalie strizzò gli occhi, stirò le labbra ed emise uno squittio che fece girare metà dei presenti. «Come sono contenta! Non ti nascondo che ero un po’ in ansia, non volevo assolutamente ferirti… sai, considerato anche la faccenda del contratto…».
Gemma non mosse un muscolo. «Che contratto?» chiese, il sorriso congelato.
«Be’, il nostro, intendo. Sai che io adesso ho il contratto da praticante, a tempo indeterminato».
«No» rispose Gemma, senza battere ciglio. «Non sapevo niente».
«Oh, non te l’ho detto? Dalla settimana scorsa. Sì, lo so che sei arrivata prima di me, e in effetti è una vera ingiustizia… ma non potevo rifiutare, ti pare?». Le fece un cenno grazioso e sbadato, raggiunse le bulle e tutte insieme si diressero verso la fila opposta.
Gemma mandò giù il rospo. A fatica.
Ma non per Filippo, ovviamente.
Il contratto. Quella vipera cornuta aveva avuto il contratto. Alla faccia sua, e di tutte quelle come lei, che arrivavano nelle redazioni pronte a tutto ma sempre eternamente impreparate, inermi, indifese davanti ai doppi cognomi, ai patrimoni di famiglia, ai padri e madri professionisti, giornalisti, docenti universitari, parenti di assessori e quant’altro. Per un momento infinito si sentì avvolgere da un’incazzatura nerissima, spessa e densa come le trombe d’aria sul mare durante i temporali d’agosto, e quasi non si accorse della borsetta che le vibrava intensamente in grembo. Prese lo smartphone dall’involucro di stoffa con una smorfia di odio e sibilò: «Diego, che c’è? Sto lavorando».
Diego. Il fidanzato perfetto. Praticante anche lui, ma avvocato, nello studio di suo zio. Capelli biondo miele e occhi castani, bella faccia volitiva, Gemma adorava la sua terrona arroganza cesellata armoniosamente nei modi gentili, quasi cerimoniosi, propri a lui e a tutta la sua famiglia, segnata – come indicava il cognome Mastrogiudice – da una secolare intimità con l’esercizio della giustizia.
«Gemma, che tieni? Ti devo parlare».
«Diego, ho fretta, che succede?».
«Ho capito, ja’, c’è quella lì con i brillanti veri alle orecchie». Diego non era un uomo, era un lie detector. Gemma sospirò. «Sì, ci sta pur’essa, ma mica mi chiamavi per questo, no?» Ci fu un breve silenzio. Poi lui rispose a bassa voce.
«No, Gemmi’, non ti chiamavo per questo. Senti, c’è stata una disgrazia».

(estratto da

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