Letteratura
Conversazione su Dante
Rubo il titolo a Mandel’štam. Viviamo in un’epoca in cui la divulgazione, soprattutto in Italia, è sinonimo di semplificazione. Ma non c’è bisogno di semplificarli gli argomenti per renderli più comprensibili. C’è solo bisogno di esporli con chiarezza. La musica, la poesia, proprio per il loro impatto sulla fantasia, l’intelligenza e l’emotività di quasi tutti, si prestano così a ignobili, puerili parodie dei loro contenuti e significati. Non è dicendo che il destino bussa alla porta, che faccio capire l’attacco della Quinta Sinfonia di Beethoven, ma cercando di far capire, e sentire, come da quella semplice cellula ritmica Beethoven costruisca tutta la sua sinfonia, farne conoscere le evoluzioni, le trasformazioni. Non è difficile. E’ solo faticoso: richiede tempo, studio, capacità di comunicare concetti complicati. Semplificare non richiede nessuna fatica, ma non fa conoscere niente, conduce anzi fuori strada. E non mi si dica che rendo comprensibile Beethoven a chi non sa la musica, perché non è vero. Non faccio conoscere Beethoven, ma uno scarabocchio che non gli somiglia. L’anno dantesco sta per finire, per fortuna. Si è sentito e visto di tutto e di peggio. Tutti, o quasi, si sono sentiti in grado di spiegarlo al popolo. Anche chi prima non si era mai occupato di lui. Qui cerco di ricondurre il discorso su Dante al campo che gli compete. Allievo, come sono, di Natalino Sapegno, comincio proprio da lui. Per ripercorrere la sua azione di pulizia, di sgombero: degli equivoci, delle semplificazioni che si sono sedimentate sulla poesia di Dante. Spero di non avere peccato di superbia, e di non avere mancato il bersaglio.
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“Francesca non racconta la sua vicenda e tanto meno la caratterizza nei suoi termini particolari; ché anzi, col richiamarsi a taluni enunciati di dottrina ormai fissati e consacrati in formule universalmente adottate, tende a riportarla a una situazione generica e per cosí dire impersonale, e per questa via si sforza di spiegarla e giustificarla, sottraendo l’impulso primo del peccato ad una precisa responsabilità individuale, per trasferirlo sul piano di una forza trascendente e irresistibile: Amore. Di qui l’elaborata struttura del suo discorso; sia dal punto di vista formale, con le sue studiate rispondenze interne e la ripetuta assunzione, in tre momenti, di un medesimo soggetto grammaticale, che non coincide mai col soggetto reale delle azioni espresse (e anzi sembra proporsi di distogliere da questo l’attenzione dell’ascoltatore); sia sul piano concettuale, che, col riportare ciascun atto del dramma a una norma dottrinale dichiarata o sottintesa, trasforma il discorso in una sorta d’incalzante sillogismo, per cui, poste determinate premesse logiche, debba quasi di necessità scaturirne una prevedibile conclusione, indipendentemente dalla volontà dei singoli attori. La prima formula di cui Francesca si serve è un punto della dottrina d’amore, che era stato accolto da ultimo e ribadito da alcuni poeti dello «stil nuovo»: il cuore nobile si apre naturalmente all’amore, e anzi non vi è nobiltà di cuore senza amore; tanto che nelle parole di lei si possono avvertire precisi riecheggiamenti della teorica del Guinizelli («Al cor gentil ripara sempre Amore») e dello stesso Dante («Amore e ‘l cor gentil sono una cosa»); ma quella dottrina era stata già il presupposto e la ragione determinante di tutta una vastissima letteratura, che va dai romanzi cortesi ai trattati e alla lirica dei trovatori provenzali e dei loro imitatori italiani. Sugli effetti dell’amore, che rende chi si avvicina ad esso nobile e lo adorna di virtú e di buoni costumi, aveva dissertato Andrea Cappellano (De amore, I, 4); della sua forza irresistibile e dei suoi rapporti con la cortesia e la gentilezza avevano discorso l’autore de Roman de la Rose e i romanzieri del ciclo arturiano: cfr. anche G. CONTINI, in Approdo letterario, I, 1958. Non a caso Francesca ricollegherà esplicitamente la prima radice della sua passione agli effetti della lettura del romanzo di Lancillotto, uno dei testi piú diffusi di quella letteratura particolarmente gradita alle corti e agli ambienti signorili”.
“e ‘l modo ancor m’offende: quasi tutti i commentatori riferiscono l’inciso alla frase immediatamente precedente che mi fu tolta, e vi vedono un’allusione o ad una presunta particolare efferatezza del modo in cui Gianciotto avrebbe ucciso i due amanti, ovvero al carattere repentino di quella morte, che avrebbe tolto ad essi ogni possibilità di pentirsi del loro peccato e li avrebbe quindi dannati per sempre. Ma il parallelismo logico e formale fra questa terzina e la seguente (e, in particolare, tra ancor m’offende e ancor non m’abbandona {v.105}) richiede che l’inciso sia riferito, anziché alla relativa che immediatamente precede, alla proposizione principale, intendendo: «Amore, che trova rapido accesso in cuore gentile, prese costui della bella persona, che mi fu tolta colla violenza, e il modo, l’intensità, di questo amore fu tale che ancora mi offende, mi vince». Di siffatta accezione di offendere, nel senso di “menomare, danneggiare”, si hanno molti esempi nell’uso di Dante (cfr. Inf., II, 45; VII, 71; Purg., XXXI, 12; e in questo stesso canto al v. 109). Questa interpretazione del nesso sintattico, già proposta, fra i commentatori antichi, dal Buti («il modo di questo amore che fu disordinato e smodato… prima m’offese nel mondo, che ne perdetti l’onestà e poi la vita corporale, e ancora mi offende, imperciò che ora ne perdo la vita spirituale», oppure: «m’offese nel mondo, cioè m’inaverò e ferimmi il cuore, e cosí ancora m’offende, cioè m’inavera e ferisce ora, che l’amo fortemente») e dal Landino, e fra i moderni, dal Moschetti, è stata ora ripresa, con stringente argomentazione, dal Pagliaro (l. cit., pp. 15-19; Saggi di critica semantica, Messina, 1953, pp. 333-53), il quale giustamente insiste sulla rispondenza formale e concettuale fra le due prime terzine del discorso di Francesca: «La proposizione relativa (Amor) ch’a nullo amato amar perdona {v.103} risponde esattamente alla relativa della prima terzina (Amor) ch’al cor gentil ratto s’apprende {v.100}, e in ambedue i casi la nozione espressa appare in funzione di giustificazione dottrinale del rapporto di amore. Ancora palese è la rispondenza, anch’essa sul piano dottrinario, fra le proposizioni principali Amor… prese costui della bella persona {v.101} e Amor… mi prese del costui piacer… {v.104}; in ambedue i casi la bellezza come generatrice d’amore, secondo i canoni dell’amore cortese e stilnovistico. Infine si ha la rispondenza fra le due frasi e ‘l modo ancor m’offende e (Amor…) ancor non m’abbandona {v.105}, nelle quali si dichiara che il reciproco amore di una volta vive ancora con la stessa intensità nell’Inferno», riflettendosi nel modo stesso della pena che li tiene avvinti per sempre”.
“di pietade: per la pietà di quel pianto, per la tristezza che nasceva dal contemplare quell’infelicità senza scampo. Nel quadro di questa pietà (da intendersi, come s’è detto, nel senso della commozione che accompagna uno stato di perplessità morale e intellettuale) occorre interpretare tutto l’episodio di Francesca, che è il primo grande esempio della poesia «maggiore» di Dante: di quella poesia cioè che nasce sempre da una situazione complessa, «problematica», e si riporta dovunque, sebbene mai in maniera immediata e semplicistica, all’unità della concezione fondamentale del poema. Agli interpreti romantici, che insistono esclusivamente sull’umana compassione del poeta per i due amanti infelici, sfugge la reale natura della reazione psicologica del personaggio Dante, il quale dal caso di Francesca e di Paolo è condotto a riesaminare e misurare la validità di tutta una posizione sentimentale e culturale, della quale anch’egli ha lungamente accolto le ambigue soluzioni. Ne deriva una situazione non univoca appunto, ma complessa, non statica, ma drammatica. Proiettato nell’animo del pellegrino l’incontro con i due dannati prende l’aspetto di un’esperienza, che vuol dire anzitutto un acquisto: la liberazione da un errore, la conferma e il chiarimento di una verità morale già confusamente posseduta. Il senso totale dell’episodio non può esaurirsi nella illustrazione dello stato d’animo di questo o quello degli attori che vi partecipano, non nella passione di Francesca e neppure soltanto nella perplessità del personaggio Dante, ma s’illumina appunto, drammaticamente, in quell’incontro di un’anima vinta dal peccato con un’anima che anela a vincere le condizioni del peccato, e nel giudizio etico, sottinteso ed implicito, ma sempre presente, del Dante poeta che crea i suoi personaggi e sta al di sopra di essi. Da questo giudizio etico astrae chi nella pagina appunta la sua attenzione esclusivamente sulla figura di Francesca e ne fa una sorta di eroina compatita e redenta dall’umana pietà dello scrittore. Cominciò il Foscolo, scrivendo a proposito di questo episodio: «la colpa è purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que’ versi la compassione pare l’unica musa»; e da queste sue parole trasse in seguito lo spunto la lunga serie delle interpretazioni in senso romantico, da quella del De Sanctis fino alle piú recenti (e tutte importanti per abbondanza e acume di notazioni particolari) del Parodi, del Barbi, del Pagliaro. Ma Francesca non è un’eroina, e nel ritrarla Dante insiste se mai sulla sua femminile debolezza e sul suo bisogno costante di giustificazione e di compatimento. La «fatalità della passione» è nella donna peccatrice un motivo che le si porge naturale come mezzo di discolpa; è nel pellegrino che l’interroga il dato di una teorica acquisita e corrente, di cui è portato a rivedere l’attendibilità alla luce delle sue conseguenze reali e terribili; ma non può essere il criterio del Dante che giudica e punisce e alla stregua del quale sia lecito fondare una coerente interpretazione della sua creazione poetica. E s’intende che Francesca non è neppure, nelle pagine dell’Alighieri, il paradigma di un concetto, ma una creatura viva: il «problema» è tutto risolto in una sintesi fantastica. È proprio della poesia di Dante, nei suoi momenti piú alti, questa capacità di conservare intatta, pur nella fedeltà sostanziale all’assunto etico e strutturale, l’umanità complessa e appassionata delle sue creature; per cui nell’intelaiatura tutta medievale e cattolica del poema viene a confluire una cosí ricca e varia materia di passioni umane, di vizi e valori terreni, dominati e contenuti, ma non mai repressi o soppressi”.
Sono tre passi del commento di Natalino Sapegno al Quinto Canto dell’Inferno. Rileggiamoci in particolare due passi. 1. “Agli interpreti romantici, che insistono esclusivamente sull’umana compassione del poeta per i due amanti infelici, sfugge la reale natura della reazione psicologica del personaggio Dante, il quale dal caso di Francesca e di Paolo è condotto a riesaminare e misurare la validità di tutta una posizione sentimentale e culturale, della quale anch’egli ha lungamente accolto le ambigue soluzioni”. 2. “È proprio della poesia di Dante, nei suoi momenti piú alti, questa capacità di conservare intatta, pur nella fedeltà sostanziale all’assunto etico e strutturale, l’umanità complessa e appassionata delle sue creature; per cui nell’intelaiatura tutta medievale e cattolica del poema viene a confluire una cosí ricca e varia materia di passioni umane, di vizi e valori terreni, dominati e contenuti, ma non mai repressi o soppressi”.
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Sapegno insiste, giustamente, sulla necessità di leggere il poema di Dante in tutta la sua intricata complessità. L’evidenza umana dei personaggi, e Dante stesso è personaggio della Commedia, oltre che l’autore, non nasconde affatto né cancella le ragioni teologiche, morali, della sua collocazione nel poema, e tanto meno mette in secondo piano la sua logica narrativa. Francesca si trova nel secondo girone dei dannati, quello dei lussuriosi. Né il poeta Dante, né il personaggio Dante lo dimenticano mai. Anzi è l’elemento che rende particolarmente tragica la sua figura. L’Inferno non ospita solo peccatori spregevoli, ma anche anime nobili, personaggi d’indole generosa: Farinata, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, tra altri. La condanna è tanto più drammatica, tanto più dolorosa, quanto più “gentile” è il personaggio.
Mi meraviglio, pertanto, che esistano ancora alcuni che immaginano possibile una lettura ingenua, d’immediato impatto, unicamente sentimentale, della Commedia. Secoli di commenti, dall’Ottimo al Benvenuto, al Buti (citato spesso da Sapegno) e poi via via attraverso il Rinascimento, l’Illuminismo (che tuttavia Dante lo sentì estraneo), i Romantici (che lo distorsero), e finalmente dopo l’accurata ricerca prima della cosiddetta Scuola Storica carducciana e poi degli ampi, puntuali studi di un Singleton, di un Auerbach, e in Italia di Barbi, Rajna, Vandelli, Scartazzini, fino a Sapegno, e ora gli studi più recenti, sia italiani sia tedeschi, inglesi, americani, francesi, e i contributi di tanti filologi della letteratura romanza, non sono riusciti a scalfire, in molti, l’idea che, tutto sommato, in fondo, l’essenziale di un romanzo, di un poema, resta l’impatto emotivo dei versi, la suggestione drammatica delle figure evocate. Si dimentica in questo modo, per esempio, che la lingua di Dante solo apparentemente corrisponde alla lingua italiana parlata e scritta ancora oggi, e su ciò tanto Leo Spitzer quanto Auerbach hanno scritto contributi decisivi, senza contare le analisi dei commenti ai testi, come fa sopra Sapegno quando chiarisce il senso che il verbo “offendere” ha nella confessione di Francesca: mi fa male, mi danna. La deviante lettura crociana produce pur troppo ancora oggi altre devianti letture. Croce, pur suscitando il problema di una lettura “moderna” di Dante, ha scritto, però, su Dante forse il suo saggio meno riuscito e in taluni punti addirittura imbarazzante: uno scheletro cui restano attaccati pezzi di carne, sarebbe il poema! come scrive. Lo scheletro sarebbe la struttura, i pezzi di carne la poesia: ribadendo
la sua idea di poesia e non poesia – che è anche il titolo di un suo libro – di poesia anzi contrapposta, seppure dialetticamente, alla non poesia, il che lo conduce qui, come non mai, fuori strada. Ariosto e Goethe gli erano più congeniali, e scrive su di loro pagine bellissime. Su Goethe, tuttavia, avanza riserve simili a quelle avanzate per la Commedia. I suoi modelli ideali di poeta sono Ariosto e, soprattutto, Shakespeare, il quale ultimo realizzerebbe pienamente ciò che a Dante non riesce che in parte: di far coincidere la struttura con la poesia, eliminando di fatto gli scarti della non poesia, nei drammi di Shakespeare pressocché assenti. La struttura narrativa della Commedia, invece, non è una sovrastruttura inutile, ma il supporto, l’ossatura che dà senso alla narrazione. Ma lo stesso vale anche per la la lirica dantesca, tutta la poesia dantesca, anche le canzoni dottrinali, e per quel miracolo assoluto che è la Vita Nuova, a rifletterci il primo, sublime, esempio di autofiction, o, per meglio dire, di romanzo autobiografico, un genere che non è romanzo e non è autobiografia, ma un’invenzione narrativa nella quale realtà biografica e invenzione si bilanciano, si mescolano, anticipando in qualche modo già l’ossatura della Commedia. E si badi la verità del dato biografico non è più reale del dato dell’invenzione: la verità della narrazione non è garantita dalla corrispondenza dei fatti narrati a fatti reali, bensì dalla narrazione stessa, è il narrare che rende vero ciò che è narrato, il che attribuisce alla narrazione un significato aggiunto, che travalica la lettera del racconto, senza negarla, le conferisce una verità più alta della corrispondenza biografica, perché è la verità del suo significato figurale, vale a dire, del suo senso simbolico e insieme etico, e in ultima analisi, mistico, com’è mistico, alla fine, il senso stesso della poesia, che la verità delle cose la estrae dal linguaggio con quella violenza con cui Apollo estrasse Marsia dalla vagina delle sue membra (Paradiso, I, vv.19-20). Il pensiero di Dante è un pensiero sempre complesso, e innerva anche i momenti di maggiore impatto emotivo: l’emozione, in Dante, è sempre anche un’emozione intellettuale, ha sempre la tensione di un’istanza morale. Si pensi al bellissimo attacco della canzone “Donne che avete intelletto d’amore”. Dante non dice “che avete sentire, desio, ecc.“, dice “intelletto”, conoscenza, cognizione di che cosa sia l’amore. Sapegno, dunque, riassume bene un po’ tutta la letteratura critica precedente e liquida, giustamente, la lettura “romantica” del canto di Francesca non come una lettura sbagliata, ma come un lettura limitata, limitante. La lettura di Dante – ma in realtà di ogni grande poeta, anzi di ogni poeta – richiede in effetti una disposizione alla complessità dei piani di significato che il poeta evoca con i suoi versi. Anche il poeta più semplice, anche il poeta popolare. Tanto più in un poema, come quello dantesco, che si pone come sintesi della cultura di un’epoca, si propone come messaggio di salvezza per chi smarrisce la strada della retta conoscenza. Qualcuno ha parlato, giustamente di un “Itenerarium mentis ad Deum”, itinerario della mente a Dio. Un viaggio nella conoscenza, e la conoscenza ultima è, naturalmente, Dio. Ma è la mente che guida il pellegrino, non il sentimento, romanticamente inteso come impulso immediato, emozione irriflessa. Questa immediatezza Dante la ignora (come la ignorano anche Goethe e Proust). Tutto è mediato nella Commedia, anche il sentimento. Insomma, bisogna evitare di cadere nella trappola, oggi di moda, che la poesia, anche la poesia di Dante, è cosa facile. Certo che commuove, anche. Ma non bisogna confondere la rappresentazione del sentimento con il sentimento stesso. E la poesia, la vera poesia, è sempre rappresentazione, mai impulso sentimentale diretto. Non importa se il poeta provi o no il sentimento che esprime, importa che sappia rappresentarlo, esprimerlo con le parole giuste. In fondo il poeta è, come scrive Pessoa, un “fingitore”. La poesia è difficile, difficilissima. Anche la poesia popolare. Anche Bon Dylan, che poi popolare non è, anche se amato da moltissimi. La poesia non è , inoltre, quasi mai d’immediato impatto. Quando sembra che così avvenga, è perché si condivide con l’autore la stessa cultura, lo stesso specchio di emozioni. Ma una poesia cinese, uno haiku giapponese già richiedono dall’europeo un di più di conoscenza, per esempio almeno una infarinatura sul Tao, sullo Zen. Ficchiamocelo bene in testa: nessuna poesia, nessuna musica è immediatamente afferrabile se non si possiede la cultura che hanno dato loro vita. Il che non significa che richieda erudizione (la quale in ogni caso non fa mai male), ma sì una partecipazione ai codici di comunicazione sia intellettuale sia emotiva di cui la poesia, la musica si servono. Anche il sentimento, infatti, non è universalmente uguale dappertutto, ma ubbidisce a condizionamenti culturali diversi di epoca in epoca, di paese in paese. Il tedesco Sehnsucht lo traduciamo di solito con Nostalgia. Ma non è affatto la stessa cosa. In spagnolo amare si dice querer, chiedere, che però non perde il significato originario di chiedere. “Te quiero” significa sì “ti amo”, ma con in più il senso di “ti chiedo” “ti voglio”. Anche perché poi anche in spagnolo c’è il verbo “amar”, ma non lo si usa, in genere, per dire “ti amo”. L’immenso drammaturgo che è Lope de Vega, ne La Dorotea, “azione in prosa”, lo sintetizza meravigliosamente: in un monologo, Dorotea è combattuta tra il desiderio di cedere alla passione per lo squattrinato poeta Fernando o seguire i consigli della madre e accettare la “protezione” del ricchissimo nobile peruviano. “¿Que puedo querer más sino quererte?” dice, rivolgendosi idealmente all’amato. Che significa: che cosa posso chiedere di più se non amarti? In italiano si perde, però, il doppio senso del verbo querer.
C’è chi obietta che, ad esempio, il romanzo di Cervantes arriva al lettore anche quasi senza mediazioni culturali. Ma la ragione è un’altra. In fondo comincia proprio con il Don Chisciotte il romanzo moderno, ed è Cervantes stesso che chiede l’impatto immediato, come per qualsiasi romanzo. Insomma la scrittura del Chisciotte è già la scrittura del romanzo moderno, compresi Agatha Christie e Camilleri. Dante no. Dante scrive un poema teologico in cui è riassunta tutta la cultura medievale, e pretende che sia letto come tale. Dante è un poeta medievale, profondamente radicato nella cultura medievale, nella teologia scolastica e in particolare tomistica (ma Duns Scoto non gli è estraneo), vede l’ascesa della borghesia finanziaria come un male, un peccato sociale, e ha nostalgia di tempi in cui il potere non era borghese, ma nobiliare, lui, della piccola nobiltà fiorentina, per accedere alla politica dovette accettare di iscriversi a una delle arti, diventare borghese, perché a Firenze la borghesia aveva cacciato i nobili dal potere. L’equivoco di credere Dante già moderno (e lo è, ma non nel senso che diamo noi oggi alla modernità, vale a dire di una società e una cultura laiche, borghesi, legata alle professioni e non al privilegio di nascita – anche se di fatto tale privilegio persiste), l’equivo d’immaginarlo nostro contemporaneo nasce dal fatto che la sua lingua sembra la nostra, ma non lo è che in parte. Quando scrive “pietade”, come osserva Sapegno, non è la nostra pietà per un infelice, ma all’orecchio dei suoi contemporanei, per i quali la lingua della cultura è il latino, pietade è anche la pietas virgiliana, quella di Enea, del pius Aeneas, un sentimento di partecipazione che si deve anche allo sconfitto, anche al perdente, anche al perduto.Tutto il contrario della nostra società attuale che sembra premiare solo i vincenti. Come sarà cinque canti dopo per Farinata. La tragedia del grande politico non sta nella sua nobiltà d’animo, ma nel fatto che la sua nobiltà d’animo non gli ha impedito di perdere, di dannarsi. Dante ha sempre di vista il destino universale degli uomini dietro ogni singolo destino individuale. Ha una visione teleologica, escatologica della storia. C’è un disegno divino anche negli errori degli uomini. Il che lo rende perplesso, lo fa tremare, piangere. Ma non può per questo non arrendersi alla volontà divina. Dante, nel viaggio, ha spesso pietà, si commuove spesso, in tutti e tre i regni dell’oltretomba, anche nel Paradiso. Nell’Inferno gli accade più spesso, perché l’Inferno è il regno dei dannati. Il dolore è senza scampo, senza redenzione. Si commuove, per esempio, quando vede la “figura” dell’uomo stravolta nella condanna degli indovini, e piange. Come piangerà nel Purgatorio a vedere gli occhi “cuciti” degli invidiosi. Ma c’è, proprio qui nell’Inferno, un particolare ancora più terribile, più raccapricciante, e non potrebbe essere diversamente, perché a Dante questa distorsione, questo stravolgimento, nel canto degli Indovini gli si mostra in tutta la sua razionale giustizia. Le lacrime degli indovini, che hanno il capo girato all’indietro, e la faccia dunque è volta sulle spalle, invece che sul petto, colano giù lungo la schiena e s’infiltrano “per lo fesso”, scivolano cioè in mezzo alle natiche. Gli indovini piangono e le loro lacrime scivolano sul culo. Il realismo, sconvolgente, della scena acquista un significato morale, di giustizia implacabile, perché il realismo dantesco ha sempre un significato allegorico, figurale, come spiega Auerbach. La Commedia va letta come si legge la Bibbia: Dante del resto si propone come un profeta moderno. E non come un romanzo d’avventure. Romanzo ch’è condannato, tra l’altro, e definitivamente, da Francesca: Galeotto fu il libro che la condusse alla dannazione. Dante sta, nel canto di Francesca, non solo rivedendo la poetica dello Stil Novo, ma condannando in blocco i romanzi cavallereschi, che incoraggiano l’amore adultero. Sarà moralistico, potrà dispiacerci: ma è questo il suo pensiero. La morale di Kant è permissiva se confrontata con quella di Dante, molto più rigida, molto più inflessibile, perché non è la moralità dell’uomo, ma la legge morale di Dio. In fondo per Dante, come si è già detto, è peccato anche la pratica bancaria. nasce anzi proprio dalle banche per Dante la corruzione politica del suo tempo. Dante non solo non è il poeta del moderno, ma è un poeta antimoderno, che rifiuta la modernità. In qualche modo, per qualche verso, come la rifiuterà cinque secoli dopo Baudelaire. Le Fleurs du mal sono l’Inferno del XIX secolo. E più di una volta la poesia di Baudelaire ha toni danteschi. Per esempio, nel Voyage à Cythère. So che questo aspetto non piace a molti, non piace a chi vorrebbe semplificare anche la poesia alla balbuzie odierna. Ma è ciò che dice Dante (e a Baudelaire). Nemmeno certi giudizi sommari di Tolstoj in fondo ci piacciono veramente. Ma resta ugualmente il grandissimo scrittore che è. Ed è lo scrittore che è anche, o soprattutto, per quei giudizi che ci dispiacciono. Niente di peggio per capire la letteratura, che un codice del politically correct. Dostoevskij è un ultraconservatore rabbiosamente antisemita. E allora? Ma ritornando a Dante, riconquistiamo la complessità della sua poesia. Non banalizziamola, credendo così di renderla più accessibile. Si farebbe solo cattiva divulgazione. E un grave torto a Dante: ci ha impiegato una vita a conquistarsela, quella complessità. Venti anni, almeno, solo per la Commedia. Perché dovremmo negargli l’efficacia di tanto lavoro, l’eccellenza raggiunta attraverso una così lunga e capillare fatica?
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